Josep Maria Jujol i Gibert nasce il 16 settembre del 1879 a Tarragona e muore a Barcellona nel 1949. Lavora con Antoni Maria Gallissà dal 1899 e con Josep Font i Gumà dal 1903. Dal 1906 inizia la fondamentale collaborazione con Antoni Gaudí i Cornet. Sia Gaudí che Jujol sono collocabili all’interno del movimento modernista catalano. Nell’ottica di un legame tra cultura europea e cultura catalana, tema guida del IX Convegno dell’AISC, Jujol viene inteso come attento esponente di un complesso movimento culturale europeo ottocentesco e come innovatore in grado di indicare direzioni inattese e moderne.
Lo stile architettonico di Jujol subisce le influenze del maestro Gaudí e conclude la poetica del modernismo catalano[1]. Come fa notare il critico d’arte catalano Alexandre Cirici Pellicer questo «moviment intel·lectual i artístic era un intent de sintesi amb dues ales: simbòlica i progressista»[2], il suo amore per il mistero e per l’emozione «destruía la fe en el racionalismo y contribuía asimismo a realzar el papel de lo instintivo»[3].
Una figura fondamentale per comprendere le novità culturali dell’epoca è John Ruskin. Il suo Aesthetic Movement conduce al movimento Arts and Crafts di William Morris, a sua volta fondamentale per la nascita dell’Art Nouveaueuropea, all’interno della quale si inserisce la poetica del Modernismo Catalano[4]. La città di Venezia è importante per la definizione dei propositi di Ruskin, è del 1851 il suo fondamentale libro The Stones of Venice. «Nessuna architettura può essere veramente nobile se non ha in sé una qualche imperfezione»[5] afferma Ruskin, in questo senso egli critica lo stile rinascimentale che «esigendo perizia tecnica, si dimenticò di chiedere originali intuizioni»[6]. Afferma che lo «spirito gotico non solo osa trasgredire lo stato servile, bensì sembra prendere diletto nella trasgressione stessa e nell’inventare una serie di forme il cui merito» è quello «di instaurare il principio stesso della novità continua»[7]. I valori dell’imperfezione e della novità sono suggeriti a Ruskin dall’osservazione delle strutture viventi, nelle quali «si riscontrano irregolarità e manchevolezze che non sono soltanto segno di vita, ma anche di bellezza»[8]. Vengono così poste le basi per il sorgere di proposte formali a matrice naturale.
L’Art Nouveau, fenomeno estetico consentito da questa rivoluzione del gusto opera, come afferma la storica dell’arte Gabriele Fahr-Becker, secondo una bio-logica. La natura è il modello principale «a cui si aggiunge il fattore decisivo della proiezione dell’artista»[9]. Vi è inoltre la necessità di una predisposizione sociale che consenta tale sviluppo. Entrambi gli aspetti cooperano a ridefinire in profondità le coordinate artistiche e sociali, rendendo possibili nuove forme di espressione. Come sottolinea Lara-Vinca Masini, l’Art Nouveau è stata «la prima delle avanguardie del mondo contemporaneo; ed ha poi nutrito di sé gran parte dei movimenti che gli sono venuti dietro; e, a guizzi e a ritmo alterno, la sua incidenza si è fatta sentire fino a tempi recentissimi»[10]. Klaus-Jurgen Sembach sottolinea come per lo sviluppo dell’Art Nouveau «non furono tanto le metropoli a esporsi quanto piuttosto località allora considerate periferiche, come Glasgow, Darmstadt, Weimar, Nancy, Barcelona [...] i vari centri non intendevano portare avanti un discorso di orgoglio campanilistico, di prestigio, ma sentivano la propria evoluzione come provocazione»[11].
In questo rinnovamento culturale, che passa per una riconsiderazione della natura come guida ispiratrice del fare artistico, operano modernisti catalani come Lluís Domènech i Montaner, Josep Puig i Cadafalch e tra loro, per intensità di propositi e radicalità delle scelte, eccelle soprattutto il genio di Antoni Gaudí. Juan José Lahuerta chiarisce i termini per una necessaria contestualizzazione dell’architettura del maestro catalano. Egli sottolinea che l’opera di Gaudí «ha superato di molto il periodo in cui egli visse, quegli anni turbolenti tra due secoli, ma se lo ha fatto è perché Gaudí seppe, come niente e nessuno, interpretare quel tempo, il suo tempo e proporne le immagini più forti»[12]. Il caso Gaudí mette in luce il rapporto tra nuova creazione e radicamento culturale, sottolineando la posizione del modernismo catalano nel quadro europeo. Come nota Mireia Freixa il «modernismo catalano e l’art nouveau avevano in comune […] lo spirito internazionalista, ma il movimento catalano si muoveva all’interno di un complesso paradosso, basato sul mantenimento delle radici culturali e delle tradizioni, contestualmente alla difesa della modernità»[13].
In Gaudí e in Jujol la sperimentazione creativa materiale non esclude una difesa dei valori catalani e dei valori spirituali. Per la sua fervente religiosità, oltre che per il ruolo guida nel processo di rinnovamento di un’intera città, Gaudí viene spesso paragonato a Gian Lorenzo Bernini. «L’architettura di Gaudí è il barocco tardivo che Barcellona non aveva avuto a suo tempo […] La sua opera domina Barcellona come quella del Bernini domina Roma ed è diventata il metro con cui misurare qualsiasi sforzo immaginativo»[14]. In questi termini si esprime il critico d’arte Robert Hughes nel suo testo Barcellona, duemila anni di arte, cultura e autonomia, suggerendo anche una interessante lettura di Jujol come «il rococò rispetto al barocco di Gaudí»[15]. Lo stesso autore in Barcellona l’incantatrice, altro testo dedicato alla città catalana, non risparmia critiche ad un certo gusto pietistico di Gaudí e si sofferma sull’importanza dell’apporto del collaboratore, a suo avviso «i più begli effetti cromatici, nei palazzi di Gaudí, risultano sempre essere opera di Jujol»[16].
Gli interventi decorativi di Jujol sembrano condurre le opere di Gaudí ad una maggiore libertà creativa. Non a caso la sua estetica è stata paragonata, oltre a quella surrealista di un Miró o di un Dalí, spesso suggerita anche per Gaudí, a correnti artistiche quali l’espressionismo e l’arte povera[17]. Le interpretazioni surrealiste dell’opera di Gaudí ne sottolineano gli aspetti sensitivi e irrazionali, tanto che la sua produzione viene letta in chiave onirica da Salvador Dalì, come opera “commestibile”[18]. Come afferma il critico dell’architettura Anthony Vidler confondere «il confine tra mentale e fisico, organico e inorganico, era, per i surrealisti, uno dei piaceri tipici dell’Art Nouveau»[19]. Per Karel Teige lo stile naturalista di fine XIX secolo apre la strada alla creazione di uno spazio vitale, così il «declino dell’architettura stilistica e della monumentalità libera il terreno alla creazione di una vita libera»[20]. Tuttavia se in Gaudí è già evidente la propensione verso la creazione di forme stravaganti, queste sono spesso in lui la risultante dei materiali utilizzati nei processi costruttivi. Gaudí difende il valore razionale delle opere, quando afferma che un concetto «risulta oscuro e macchinoso quando si vogliono introdurvi […] degli accessori obbligati, che sfidano la corretta comprensione del pensiero»[21]. Afferma inoltre che perché «un oggetto sia sommamente bello, occorre che la sua forma non abbia nulla di superfluo, che rappresenti dunque solo le condizioni materiali che lo rendono utile»[22].
Nella poetica di Jujol il superfluo pare elemento rilevante, in grado di rendere maggiormente indeterminata la percezione dell’oggetto. Quando collabora con il maestro tende a proporre una superficie architettonica come pelle sensibilericcamente articolata ed in grado di sviluppare in modo imprevedibile il confine opera-ambiente. In Casa Battló agisce sull’aspetto coloristico della facciata, frammentandone l’unitarietà frontale. In Casa Milà, con strutture di ferro per i balconi movimentate e poliformi, introduce nuovi livelli di articolazione alla monolitica struttura retrostante. Si fa strada una certa propensione alla frammentazione e destrutturazine dei contenuti univoci, così importante in ricerche artistiche successive[23].
Se Barcellona rappresenta il centro più importante in Spagna per l’informale europeo, in certo modo ciò deriva da un orientamento creativo presente nel territorio, che già con Jujol tende ad esprimersi. L’opera dell’artista catalano Antoni Tàpies, esponente fondamentale dell’informale, come nota il critico Carmine Benincasa, «è quasi sempre […] indecifrabile, poiché ogni linguaggio che ricama i bordi della verità è sempre e solo simbolico e allusivo»[24], la stessa cosa può essere detta per molte opere di Jujol. Negli anni ’40 e ’50 l’informale europeo recupera i valori irrazionali espressi dal movimento naturalistico di fine ottocento. Questa rivalutazione, come suggerisce Renato Barilli nel suo testo Il Liberty, fu possibile «quando cominciò a venir meno, a incrinarsi l’idea, tanto cara al primo Novecento, di un’umanità protesa a edificare un puro ambito di ragione»[25]. Lo stesso processo riguarda direttamente le espressioni architettoniche sperimentali di quegli anni. Come afferma Malcolm Haslam, durante «gli anni quaranta e cinquanta il modernismo organico evocò spesso lo spirito dell’art nouveau: i designer si rivolsero nuovamente alle scienze naturali per attingervi forme e motivi»[26].
La partecipazione al mistero della creazione naturale e informe, in Jujol è espressione del profondo legame intrattenuto con il luogo di nascita[27]. Alcuni edifici realizzati nel territorio di Tarragona sembrano escrescenze materiche sorte da processi naturali. Esprimono un impulso compositivo che coinvolge materiali eterogenei in un rapporto movimentato ed indistinto[28]. Nella chiesa di Vistabella, pietre grezze presenti su tutto l’edificio che ne percorrono in modo ascensionale l’altezza, sembrano sorte dal terreno circostante; similmente avviene anche per quelle poste nella struttura adiacente a Casa Boffarul. Questi edifici traggono ispirazione da esperimenti gaudiani e ne rappresentano una interessante applicazione in contesti più poveri e marginali. L’architetto Ignasi de Solà-Morales suggerisce come la «fascinación de la arquitectura jujoliana está […] en esta paradoja : haber hecho un universo limitado, rico y fascinante sin necesidad de recurrir a los tópicos y a los lugares comunes de lo que se considera riqueza y abundancia en la obra de arquitectura»[29]. Vi è come un possibile punto di incontro tra gli aspetti ideali e quelli contingenti del creare. In questo Jujol pare avvicinarsi a ciò che Lewis Mumford definisce “utopia della ricostruzione”, per i suoi aspetti di accettazione dei vincoli locali congiunti ad una concreta operatività rinnovatrice.[30]
La diffusione di modelli formali avanzati in aree non urbane, denota anche una propensione del territorio catalano alla sperimentazione. Lo storico dell’arte Herbert Read afferma che qualunque «possa essere la natura del rapporto tra arte e società, l’opera d’arte in sé è sempre creazione di un individuo», aggiungendo però che «l’individuo non opera in un vuoto»[31]. Sempre lo stesso autore definisce l’arte come «una scintilla che al momento giusto scocca tra i due poli opposti dell’individuo e della società»[32]. Come afferma Alexandre Cirici l’artista «lavora perché la società a sua volta pone la sua domanda» tuttavia «non è soddisfatto dal rispondere strettamente alla domanda, ma si compiace necessariamente di un eccesso di creazione»[33].
La libera e sognante creatività spesso prescinde dalla realtà quotidiana. Questo può dipendere dal fatto che il sogno, come suggerisce Roger Caillois, tende a non essere il luogo dell’incoerente o dell’assurdo, ma quello di una totale indipendenza non cosciente[34]. Nelle opere di Gaudí si ha come una definitiva immersione in universi onirici; la poetica di Jujol sembra maggiormente instabile contraddittoria. Si è in questo caso come in una sorta di labile passaggio tra la veglia e il sonno, nella quale vi è una comunicazione reciproca e una certa co-esistenza di elementi razionali ed irrazionali. Il reale e il fantastico giungono ad un medio e labile punto di contatto.
Nelle opere di Jujol trovano riscontro idee del filosofo francese Henri Bergson, figura influente per la poetica dell’Art Nouveau. Le sue teorie, riprese ed elaborate da Michel Foucault e da Gilles Deleuze, indirizzano molte ricerche architettoniche sperimentali contemporanee. Nel suo testo L’evoluzione creatrice Bergson contrappone ad una direzione naturale e vitale dello spirito, una direzione automatica, di meccanicismo geometrico[35]. Foucault, in linea con questa critica degli schematismi, suggerisce come, dall’età classica in poi, «la legge funziona sempre più come una norma»[36] e che, nelle conseguenti società disciplinari, al «vecchio, semplice schema del chiudere e del rinchiudere […] comincia a sostituirsi il calcolo delle aperture, dei pieni e dei vuoti, dei passaggi e delle trasparenze»[37].
Seguendo le considerazioni di Foucault sull’età classica Ignasi de Solà-Morales vede già in Antoni Gaudí, Hendrik Petrus Berlage e Louis Henry Sullivan una propensione alla messa in discussione delle priorità classiche del comporre creativo, nessuno dei tre «vuole riconoscere né l’autorità, né la tradizione, né le convenzioni estetiche come fondamento plausibile del futuro dell’architettura»[38]. Questo mutamento espressivo trova una intensa concretizzazione nelle opere di Jujol. Le sue architetture sfuggono ad intenti normativi, aprono continuamente varchi per una realizzazione esente da troppo facili regole progettuali. Jujol tende a confondere compositivamente gli spazi ed i tempi storici degli edifici interessati dai suoi interventi. Ricomporne un’immagine frammentaria, incoerente e disomogenea, come avviene, ad esempio, nella giustapposizione di elementi contrastanti di Casa Bofarull a Els Pallaresos.
Le decorazioni nelle sue opere mantengono spesso un rapporto contraddittorio con lo spazio circostante, qualcosa di più del semplice contrasto fra struttura e ornamento, già tipico nell’architettura decorativa dell’epoca. Se in quel caso l’eccedenza formale ricerca generalmente una nobilitazione unitaria dell’opera, con Jujol siamo di fronte ad una sorta di esaltazione dei contrasti. Un valore sembra voler convivere con il suo opposto. Si è sulla via di quella prolifica coesistenza, in questo caso forse non tragica ed inquietante, di senso e non senso suggerita da Deleuze[39]. Questo aspetto è particolarmente evidente se si osserva il Teatro del Padronato Operaio a Tarragona, dove forme sinuose e curvilinee sono esaltate dalla convivenza con strutture tecniche razionali. Il modo in cui Jujol realizza le sue preziose articolazioni di elementi residuali, come le ceramiche rotte e ricomposte per le sedute del Parc Güell o le tazze, i piatti e le bottiglie di vetro incastonate nella torre di casa Bofarull, sembra prelude a quella che Gilles Deleuze e Félix Guattari, nel loro testo L’anti-Edipo, definiscono “produzione desiderante”. Per i due autori questa «è pura molteplicità, cioè affermazione irriducibile all’unità» poiché, a loro avviso, siamo ormai «all’epoca degli oggetti parziali, dei mattoni e dei resti»[40].
Per il critico dell’architettura Bruno Zevi si è inaugurata una nuova era di libertà, nella quale «la vittoria dell’action-architecture, immune da ogni prescrizione, è un fatto irreversibile»[41]. In quest’ottica è evidente il valore della ricerca modernista catalana, con Jujol come suo estremo esponente. Nel 1984, nel suo scritto Dal modernismo al postmoderno, Gillo Dorfles riflette sul ruolo del movimento catalano. «Dobbiamo considerare entrambi questi movimenti come due momenti abnormi e paradossali nel cammino “rettilineo” dell’arte e dell’architettura del nostro secolo» si chiede l’autore, «oppure dobbiamo ritenere che solo con essi si sia rivista la presenza di nuovi germi creativi che in precedenza erano andati quasi completamente soffocati dal conformismo della tradizione?»[42].
Le propensioni e le suggestioni estetiche di Jujol possono essere rintracciabili in varie ricerche contemporanee, europee ed extra-europee[43]. Rapporti vi possono essere con gli architetti di Barcellona Enric Miralles, Carme Pinòs e Josep Miàs. Più in generale, con quella linea sperimentale catalana, sorta di baluardo e modello europeo della creatività, che investe sulla valorizzazione delle valenze sensitivo-percettive dei materiali utilizzati, congiuntamente ad una destrutturazione degli spazi. Ricerche decostruttiviste europee, come la corrente nordica tedesco-austriaca di derivazione espressionista, condividono un medesimo orientamento, sebbene in questo caso non sempre si noti quell’attenzione, tutta catalana e mediterranea, alla poetica dei materiali.
Il critico Jan Molema, nel suo articolo su Jujol del 1998, fa un interessante paragone con l’architetto americano Bruce Goff, per la sua propensione verso il vernacolare e l’informe[44]. Dennis L. Dollens trova che ci siano delle analogie, per il modo di trattare e deformare lo spazio, con l’architetto californiano Frank Gehry[45]. In questo caso è interessante notare che, come per Ruskin, è ancora Venezia un terreno fertile per precisare nuove vie estetiche. Proprio qui, nel 1985, Gehry mette in scena la performance Il Corso del coltello, nella quale suggerisce l’importanza degli elementi caotici nella creazione architettonica. Più in generale, la cosiddetta scuola di Los Angeles contribuisce a promuovere una estetica deforme ed attenta alla poetica degli oggetti comuni. Questa propensione appartiene soprattutto all’influente architetto californiano contemporaneo Eric Owen Moss, definito da Philip Johnson il “gioielliere del ciarpame”. Significativamente, sempre nella stessa città e in totale solitudine, dal 1921 al 1954, Simon Rodia realizza, con frammenti di ceramica, vetro e materiali di scarto, le Watts Towers, una sorta di Sagrada Familia metallica decorata alla maniera del Parc Güell che è emblema cristallizzato e folle di quello spirito di libertà creativa europea che Jujol ha contribuito a far nascere.
NOTE
[1] «Some people label Jujol’s characteristic style as modernisme, others as Gaudiesque. He is, however, impossible to pigeonhole, except as Jujolian: a style that recall’s Gaudí’s and chronologically coincides with the end of modernisme» (Josep Maria Jujol Jr., The Architecture of Jujol, Santa Fe, Sites/Lumen Books, 1997, p. 50).
[2] Alexandre Cirici Pellicer, L’Arquitectura catalana, Mallorca, Raixa, 1955, p. 167.
[3] Alexandre Cirici Pellicer, El arte modernista catalan, Barcelona, Ayma, 1951, p. 61.
[4] Nel 1884, in rapporto ad un’esposizione a Barcellona delle Arts and Crafts europee, il termine “modernista” compare in Catalogna sulla rivista L’Avenç.
[5] John Ruskin, Le pietre di Venezia, Milano, Arnoldo Mondatori, 2000, p. 105.
[6] Ibid., p. 217.
[7] Ruskin riflette sulla differenza fra l’arco a tutto sesto rinascimentale e quello a sesto acuto gotico. Egli afferma che l’arco a sesto acuto «non è solo un’ardita variante di quello a tutto sesto, ma ha in sé una serie sterminata di varianti [...] le proporzioni di un arco a sesto acuto sono mutabili all’infinito, mentre una arco a tutto sesto è sempre uguale a se stesso» (Ibid., p. 107).
[8] Ibid., p. 106.
[9] Gabriele Fahr-Becker, Art Nouveau, Milano, Gribaudo/Könemann, 2004, p. 13.
[10] Lara-Vinca Masini, Il Liberty. Art Nouveau, Firenze, Giunti, 2000, p. 353.
[11] Klaus-Jürgen Sembach, Art Nouveau. L’utopia dell’armonia, Köln, Taschen, 2007, pp. 34-35.
[12] Juan José Lahuerta, Gaudí e il suo tempo in AA.VV., Gaudí e il modernismo catalano, Milano, Electa, 2003, p. 26.
[13] Mireia Freixa, L’architettura del modernismo in Catalogna in AA.VV., Gaudí e il modernismo catalano, Milano, Electa, 2003, p. 36.
Come suggerisce Barbara Borngässer, la Catalogna «vive di contrasti e ne ha tratto un potenziale culturale a dir poco inesauribile», così Barcellona è «anarchica e disciplinata, amante delle tradizioni e avanguardista, catalana e cosmopolita» (Barbara Borngässer, Catalogna. Arte Paesaggio Architettura, Köln, Könemann, 2001, p. 8).
[14] Robert Hughes, Barcellona. Duemila anni di arte, cultura e autonomia, Milano, Mondadori, 2004, p. 14.
[15] Ibid., p. 456.
[16] Robert Hughes, Barcellona l’incantatrice, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 121.
[17] «Surrealismos, expresionismos, dadaísmos, “collages”, “arte povera”, visiones emparentadas incluso con la estética de la “guerra de las galaxias” pueden no significar aún en Jujol expresiones avant la lettre de tales tendencias, pero es lo cierto e incuestionable que están ahí, que aparecen como un hecho real posiblemente al margen de cualquier formulación – e incluso de cualquier intención – en tal sentido por parte de su autor» (Carlos Flores, Josep M. Jujol: Diseño y ambiente interior in AA.VV., Jvjol, Barcelona, Centre de Documentaciò, 1998, p. 13).
[18] L’esponente del surrealismo, riferendo di una discussione avuta con Le Corbusier, elogia il suo conterraneo: «Le Corbusier mi domanda se avevo delle idee sull’avvenire della sua arte […] Gli risposi che l’architettura sarà “flaccida e pelosa” e affermai categoricamente che l’ultimo grande genio dell’architettura si chiamava Gaudí, il cui nome in catalano significa “godere”, così come Dalí significa “desiderare”» (Salvador Dalí, I cornuti della vecchia arte moderna, Genova, Il Melangolo, 1991, pp. 29, 33).
[19] Anthony Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, p. 171.
[20] Karel Teige, Surrealismo, Realismo socialista, Irrealismo. 1934-1951, Torino, Einaudi, 1982, p. 226.
[21] Scritto autografo di Antoni Gaudí “Valore della decorazione” (Manoscritto di Reus: la decorazione. 10 agosto 1870) in AA.VV., Antoni Gaudí. Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi, Milano, Jaca Book, 1995, p. 47.
[22] Scritto autografo di Antoni Gaudí “Condizioni per la bellezza” (Manoscritto di Reus: la decorazione. 10 agosto 1870) in AA.VV., Antoni Gaudí. Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi, Milano, Jaca Book, 1995, p. 44.
[23] «With this technique of decontextualization Jujol was a forerunner of the Dadaists and Surrealists» (Vincent Ligtelijn, Rein Saariste, Josep M. Jujol, Rotterdam, 010 Publishers, 1996, p. 15).
[24] Carmine Benincasa, Antoni Tàpies. La mano della notte in Verso l’altrove. Fogli eretici nell’arte del XX secolo, Milano, Electa, 1983, p. 172.
[25] Renato Barilli, Il Liberty, Milano, Fabbri, 1984, p. 134.
[26] Malcolm Haslam, Stile art nouveau, New York, Rizzoli, 1990, p. 193.
[27] José Llinàs nel suo testo su Jujol scrive: «Josep Maria Jujol est né en 1879 dans la ville de Tarragone, mais ses parents venaient de la campagne […] Jujol se sentit toute sa vie lié à la campagne natale de ses parents, et ses rapports – fortement intuitifs – avec cette région devaient être décisifs pour l’évolution de son architecture» (José Llinàs, Josep Maria Jujol, Köln, Taschen, 1992, p. 9).
[28] Come afferma nel 1896 Henri Bergson in Materia e memoria ogni «divisione della materia in corpi indipendenti, dai contorni assolutamente determinati, è una divisione artificiale» (Henri Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 166).
[29] Ignasi de Solà-Morales, Jujol, Barcelona, Ediciones Polígrafa, 1990, p. 29.
[30] Secondo Lewis Mumford «l’alternativa che ci si presenta non è tra una vita in un mondo reale o una vita nel mondo sognato dell’utopia» ma «fra una “utopia della fuga” che è senza scopo, o una più produttiva “utopia della ricostruzione”» (Lewis Mumford, Storia dell’utopia, Roma, Donzelli, 2001, p. 31).
[31] Herbert Read, Arte e alienazione. Il ruolo dell’artista nella società, Milano, Mazzotta, 1979, pp. 17-18.
[32] Herbert Read, L’Arte e la Società, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 3-4.
[33] Alexandre Cirici, Arte e società, Bari, Dedalo, 1976, p. 135.
L’artista forza la società verso direzioni impensate. Come sottolineano Berger e Luckmann nel testo La realtà come costruzione sociale, la «”apertura di fronte al mondo” intrinseca all’esistenza umana è sempre […] trasformata dall’ordine sociale in una relativa “chiusura di fronte al mondo”» (Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 80).
[34] Nel suo testo Il deserto del sogno Roger Caillois afferma: «non credo affatto che il fantastico, l’incoerente o l’assurdità, siano a prima vista i segni che caratterizzano eminentemente i sogno. Secondo me, la sua fondamentale originalità risiede piuttosto nell’indipendenza, nell’automatismo delle immagini, che a loro volta presuppongono le dimissioni della coscienza» (Roger Caillois, Il deserto del sogno, Milano, Nuova Accademia, 1964, p. 115).
[35] Bergson indica nel primo genere «quello del vitale o del voluto, in contrapposizione al secondo, che è quello dell’inerte e dell’automatico» (Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 185).
[36] Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 128.
[37] Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2007, p. 188.
[38] Ignasi de Solà-Morales, Gaudí, Berlage e Sullivan nella crisi dell’architettura dell’età classica in Archeologia del moderno. Da Durand a Le Corbusier, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 140.
[39] Afferma Deleuze, nel suo testo Logica del senso: «il senso e il non senso hanno un rapporto specifico che non può essere ricalcato sul rapporto del vero e del falso, cioè che non può essere concepito semplicemente come un rapporto di esclusione» (Gilles Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 66).
[40] Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 2007, p. 45.
[41] Bruno Zevi, Profilo della critica architettonica, Roma, Newton & Compton, 2003, p. 102.
[42] Gillo Dorfles, Dal modernismo al postmoderno in Architetture ambigue. Dal Neobarocco al Postmoderno, Bari, Dedalo, 1984, p. 136.
[43] L’architetto Josep Llinás, oltre ad essere autore di un testo critico sul suo conterraneo, è intervenuto nel restauro di suoi edifici, instaurando un dialogo con Jujol lungo e proficuo. Un altro architetto che se ne dichiara influenzato, è Martìnez Lapeña, nativo di Tarragona come Jujol.
[44] «Me complace compararlo con el norteamericano Bruce Goff (Oklahoma, 1904 – Tejas, 1982), quien más tarde evolucionaría hacia un “kitsch” de alto nivel, hacia el “camp”. Prefería lo vulgar cotidiano, lo varnáculo, a la arquitectura de lo formal» (Jan Molema, Retrato de Jujol in AA.VV., Jvjol, Barcelona, Centre de Documentaciò, 1998, p. 25). In generale, per il loro gusto dell’insolito, questa caratteristica può essere rintracciata in molti architetti-artisti della corrente internazionale dei “Friends of Kebyar”.
[45] «Cuando me enteré de que Frank Gehry and Associates habían adobtado la tecnología digital, pero de que Gehry mismo no utilizaba el ordenador […] me di cuenta de que Gehry iba a cabalgar por los siglos XX y XXI del misto modo en que Josep Maria Jujol había cabalgado por los siglos XIX y XX […] Este denominador común sería la visualización arquitectónica de las superficies deformadas mediante el uso de modelos» (Dennis L. Dollens, Jujol reEmergido in AA.VV., Jvjol, Barcelona, Centre de Documentaciò, 1998, p. 15).