La piega. Leibniz e il Barocco di Gilles Deleuze del 1988 è il testo filosofico di riferimento per le estetiche della piega mentre il volume Folding in Architecture del 1993 a cura di Greg Lynn ne è una sorta di manifesto architettonico. Come afferma Alicia Imperiale, «Gli architetti si sono appropriati di molti termini che derivano dal lavoro di Deleuze», ciò «ha condotto a cambiamenti significativi nel modo in cui gli edifici vengono concepiti in relazione all’ambiente circostante»[1]. Per Deleuze «il Barocco produce di continuo pieghe»[2], queste hanno una predisposizione ad interagire con il suolo poiché sono implicate in una ri-fondazione immanente del senso della terra, operazione che Deleuze compie seguendo e reinterpretando le teorie di filosofi tra i quali, oltre a Leibniz, soprattutto Spinoza, Nietzsche, e Bergson. L’incessante produzione di pieghe conduce verso la realizzazione del nuovo, secondo Deleuze «il migliore dei mondi» è quello «che conserva un potenziale di novità»[3]. Il concetto di piega di Leibniz e quello di immanenza di Spinoza formano un unico sistema anticartesiano, come afferma Deleuze «Leibniz e Spinoza hanno un progetto comune. Le loro filosofie costituiscono le due facce di un nuovo “naturalismo”» intendono «ristabilire i diritti di una Natura dotata di forza e di potenza»[4].
In questa ottica si presentano delle variazioni rispetto all’idea dell’abitare Heideggeriano. Nel saggio Poeticamente abita l’uomo Heidegger, riprendendo le parole di Hölderlin «Il re Edipo ha forse un occhio di troppo»[5], sottolinea la problematicità per l’abitare di un eccesso di intimità con la natura. Come ha ben chiarito Félix Duque nel suo testo Abitare la terra, l’uomo di Heidegger è sulla terra in auto-esilio, nell’ essere gettato nel mondo «il suo primo movimento consiste nel contrapporvisi tenendolo a distanza»[6]. Deleuze intende colmare questa distanza, fare dell’uomo un essere in grado di parlare con la voce della natura. La piegatura del suolo forza la terra ad essere parte di un nuovo progetto, non lascia, con le parole di Heidegger, «che la terra sia una terra»[7]. Secondo Christian Norberg-Schulz, principale divulgatore in ambito architettonico delle teorie di Martin Heidegger, per abitare è necessario: «Per prima cosa incontrare altri esseri umani [...] In secondo luogo [...] accettare un certo numero di valori comuni. E infine [...] essere se stessi»[8] (in tal modo si consente l’abitare collettivo, l’abitare pubblico e l’abitare privato). Nell’ambito della riconfigurazione dell’essere e dell’abitare suggerite da Deleuze, questi elementi sembrano rifiutati. Per Heidegger nel «salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’attendere i divini, nel condurre i mortali avviene l’abitare come il quadruplice aver cura della Quadratura»[9]. Gilles Deleuze e Félix Guattari operano «una sorta di dequadratura» che dissolve «l’identità del luogo rendendola variazione della Terra»[10]. Deleuze spinge al limite e oltrepassa il rapporto soggetto-oggetto indagato dalla fenomenologia, basta pensare alla differenza con Mikel Dufrenne, attento anch’egli alle idee di Spinoza e di Bergson, secondo il quale la Natura può «esprimersi soltanto come fondo: parla solo in quanto è muta»[11]. Deleuze solleva questo fondo, ne fa un mutevole sovrapporsi di suoli, disturba la profondità della terra. Si instaura così un rapporto di inquieta fusione con il suolo, proposto da un soggetto che vive in quella indistinzione io-altro, in quella caosmosi, congiuntura di caos e di cosmo, che Félix Guattari suggerisce essere «il regno di una maternitudine assoluta»[12].
La sovversiva idea di Deleuze e Guattari di un inconscio produttivo legittima operazioni creative che nelle avanguardie del novecento erano ancora relegate ad un ruolo marginale rispetto a un sistema architettonico consolidato. L’espressionismo e il surrealismo, nel loro investigare le dimensioni istintive ed inconsce, presentano in embrione già molti temi affrontati dalle contemporanee architetture della piega. Le utopie espressioniste di Bruno Taut, Hans Scharoun, Erich Mendelsohn e Hermann Finsterlin, indagano la possibilità di intraprendere una fusione degli elementi architettonici con il suolo[13]. Le ricerche architettoniche surrealiste sono interessate ai valori sensitivo-femminili dello spazio, basti pensare all’idea di architettura intra-uterina di TristanTzara (o alle pareti ondulate di cui parla Roberto Matta Echaurren)[14]. Hans Bellmer analizza le pieghe del corpo femminile e ne crea delle immagini dai molteplici rimandi. Il riferimento di Jean François Lyotard, nel suo libro Economia libidinale, alle pieghe di Bellmer, denota una filiazione tra la sensibilità avanguardista e quella post-moderna, ma Lyotard precisa: «La questione del “valere per” non abbiamo nessuna fretta di porla e ancor meno di risolverla»[15]. Non bisogna svelare ma lasciare indefinito il senso. In Bellmer la piega rimanda all’immagine femminile mentre Lyotard vuole evitare rapporti gerarchici tra le immagini.
Deleuze e Guattari, come Lyotard, criticano l’inconscio freudiano, troppo legato a strutture familiari, si avvicinano maggiormente alle proposte di Carl Gustav Jung[16]. Lo psicologo svizzero è il primo critico di Freud all’interno della psicoanalisi, Deleuze il più radicale avversario filosofico della sua idea di inconscio, entrambi stimolano molte ricerche del novecento sull’idea di terra e di suolo. Jung contribuisce in modo significativo ad un recupero delle immagini della terra, Deleuze indirizza tale recupero su un piano vitalistico e produttivo.
Deleuze condivide con l’antropologia filosofica di Arnold Gehlen ed Helmuth Plessner una concezione dell’umano come essere per natura artificiale e privo di equilibrio, tuttavia si discosta dalla conseguente idea di un necessario autocontrollo del soggetto[17]. Il suo uomo è un essere frammentato simile a quello presente nei dipinti di Francis Bacon, il quale, si potrebbe dire, sta a Deleuze come Henry Moore sta a Jung. In entrambi gli artisti i soggetti rappresentati tendono ad un processo di naturalizzazione, in Moore questo andare verso il paesaggio è un con-fondersi con esso, in Bacon il soggetto, che non ha più un paesaggio circostante, si fa egli stesso paesaggio-habitat. Come suggerisce Erich Neumann «il motivo madre-bambino» di Moore è l’espressione «dell’attaccamento in generale dell’uomo alla natura e del singolo alla vita»[18], atteggiamento che appartiene a molti ambiti di ricerca architettonica organica del dopoguerra. Se l’ideale antropomorfico di quelle architetture sembra essere il bambino fiducioso di Moore, oggi si viene sviluppando l’inquietante uomo-animale di Bacon[19]. Suggestioni estetiche aberranti, come quelle di Howard Phillips Lovecraft, fanno parte della baconiana dimensione immaginativa architettonica contemporanea, tuttavia, come fa notare Ubaldo Fadini, «La Figura “mostruosa” di Bacon non ha niente a che fare con il mostro “classico”: la sua logica è innanzitutto quella [...] del cedimento dei confini»[20]. Le figure baconiane suggeriscono una indefinizione dinamica presente in molte architetture contemporanee nelle quali architettura e territorio si metamorfizzano, sono espressione di un fondamentale soggetto-guida nel pensiero di Deleuze: lo schizo, soggetto ri-piegato su se stesso, colui che vive e fa la piega[21]. La schizoanalisi di Deleuze e Guattari suggerisce plurimi ed imprevedibili suoli piegati che esprimono le inquietudini moderne[22]. La schizofrenia è legata a forme di scissione delle diverse funzioni psichiche, Eugen Bleuler, colui che conia il termine, ha tra i suoi collaboratori Carl Gustav Jung e Ludwig Binswanger[23]. Quest’ultimo, analizzando la schizofrenia in chiave heideggeriana, rivela come peculiare «la rottura della coerenza dell’esperienza naturale»[24]. Come affermano Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo, «Ciò che lo schizofrenico vive [...] non è affatto un polo specifico della natura, ma la natura come processo di produzione»[25]. Egli opera con una logica differente da quella comune, come sottolinea Silvano Arieti, usa una sorta di ‘paleologica’ «simile a quella che si manifesta nei sogni, in altre forme di pensiero autistico e nell’uomo primitivo»[26]. Secondo Paul-Claude Racamier «Negli schizofrenici l’estremamente primitivo si mescola all’estremamente elaborato, in un’alleanza singolarissima di barocco e di arcaismo»[27]. Il barocco della piega viene così a comporsi con un suolo primigeneoin un rapporto che propone commistioni ideativo-architettoniche tra arcaismi formali quasi animali, e tecnologismi protesi verso un dominio incondizionato della natura[28]. Come suggerisce Heinrich Wölfflin, l’ideale del Barocco «non consiste in un’esistenza soddisfatta, ma in uno stato di eccitazione»[29]. Il Barocco, come ricorda Dino Formaggio, «non è solo un ideale d’arte, ma anche un ideale di vita» nel quale l’arte è «strettamente legata con l’infinita dinamicità e con l’irrazionale contraddittorietà della vita»[30]. La perdita del centro, coscienza drammatica del mondo Barocco, conduce inevitabilmente verso il caotico e verso l’inorganico. Come sottolinea Hans Sedlmayr non c’è dubbio che «lo spirito moderno si sia abbandonato in questa sfera del caotico non meno profondamente di quanto non l’abbia fatto in quella dell’inorganico [...] La tendenza verso il caotico accompagna come ombra la tendenza all’inorganicità. In ambedue queste tendenze emergono caratteristiche che ricordano con evidenza i turbamenti neuropatici individuali e le affezioni mentali»[31]. Per Mario Perniola il “sex appeal dell’inorganico” scocca da una «esperienza di esternità radicale che abolisce la stessa distinzione tra interiore e esteriore» viene così escluso «ogni riferimento sia a un’interiorità segreta diversa da ciò che appare, sia a un di fuori che altera il di dentro, perché si pongono finalmente al di qua del vero e del falso, perché ci consegnano irrimediabilmente e inesorabilmente a un’esternità tutta aperta e dispiegata, la quale arriva fin nei più intimi recessi del nostro essere»[32].
Frederick J. Kiesler e Claude Parent sono forse coloro che nella seconda metà del novecento introducono gli elementi di riflessione decisivi per la futura architettura della piega-suolo naturalizzata. Parent con la sua poetica dell’obliquo avvia una riconsiderazione delle potenzialità comunicative del suolo naturale e artificiale, vuole fare degli elementi architettonici e urbani una parte integrante della natura, «INNALZARE L’ABITAZIONE ALLA DIMENSIONE DEL PAESAGGIO»[33]. Kiesler mette al centro della sua ricerca il passaggio da una architettura autoreferenziale ad una architettura aperta a connessioni spaziali libere[34]. Le dimensioni ovoidali delle sue proposte ricorrono frequentemente nella contemporanea architettura della piega, suggeriscono in certo modo l’uovo-corpo senza organi (CsO) di Deleuze e Guattari, esemplificazione di uno sperimentale nucleo creativo di esistenza[35].
Una tendenza compositiva quasi autistica congiunta ad un esasperato dinamismo fusionale con la natura circostante caratterizzano molte architetture contemporanee nelle quali è spesso implicata una qualche forma di piegatura del suolo che conduce ad una ‘rinascita’ semantica dell’esistente[36]. Attraverso una de-colpevolizzazione ideativo-progettuale vi è una sorta di riproposizione stravolta del mito edenico. Secondo Franco Rella, Deleuze e Guattari ci suggeriscono che non si deve lottare contro l’esistente ma si deve «dimenticarlo e negarlo perché esso non è la vera realtà», siamo quindi di fronte al «mito edenico del ritorno alla felicità perduta»[37]. Il nuovo suolo pseudo-edenico tuttavia non rispetta l’immaginario tradizionale del paradiso terrestre, non è più un luogo protettivo e sicuro, non è più simbolizzato da un giardino ma appunto dalla piega, con la sua messa in crisi dell’interiorità intima del luogo prodotta con una modellazione e con-fusione incessante di interni e di esterni[38]. Benoît Goetz, nel suo saggio La dislocation: critique du Lieu, sottolinea come «nel paradiso, Adamo non aveva una casa. O se ne aveva una, questa non aveva un fuori, e non costituiva, di conseguenza, un dentro»[39]. Lorenzo Giacomini fa notare come in questa descrizione il paradiso terrestre somiglia a «uno spazio indifferenziato e “amorfo” [...] privo di soglie, di interno ed esterno, dove si è dappertutto e da nessuna parte»[40]. Questa volontà di indistinzione è un tratto peculiare del mondo moderno[41]. Nel libro I cavalieri del caos Renato Tomasino indica un generale processo creativo che accomuna molte espressioni artistiche contemporanee, compresa l’architettura. Per Tomasino «Sorprendentemente simili per attitudini mentali in quanto momenti di “crisi di civiltà”, l’età barocca e quella neobarocca si distinguerebbero [...] per il passaggio dalle forme all’informe, dal policentrismo al caos»[42].
Implicati nelle ricerche dell’arte informale e materica, che indubbiamente si presta alla comprensione ed alla valorizzazione di un suolo instabile, Francesco Somaini e Alberto Burri suggeriscono processi che spesso appaiono in esperimenti architettonici contemporanei. Alfred North Whitehead definisce gli oggetti come «elementi della natura che non divengono»[43], Burri con il Cretto di Gibellina realizza un non-oggetto che vuole suggerire il divenire mutevole della natura, sondarne l’energia della superficie terrestre. Le opere ‘sorgive’ di Somaini forzano i vincoli prestabiliti per consentire l’accadere di un suolo imprevedibile, sembrano accogliere e concretizzare in senso architettonico la massima di Gregory Bateson: «Senza il casuale, non possono esservi cose nuove»[44].
Luogo caotico profondamente legato all’intera ricerca filosofica di Deleuze, che lo affronta principalmente secondo la prospettiva di Nietzsche, è il labirinto[45]. Le pieghe sono definite da Deleuze come «il più piccolo elemento del labirinto»[46]. Un nuovo suolo viene suggerito da una specifica idea di natura, non più la Terra-Madre fondativa ma una Terra, rappresentata da Arianna, da raggiungere e ridefinire secondo processi architettonici sperimentali. La posizione di Arianna e di Dioniso nei confronti delle divinità femminili arcaiche è simile a quella occupata dalle architetture della piega-suolo nei confronti della terra vergine, sono sempre in certo modo contemporaneamente all’interno e all’esterno del principio originario, sono ancora e non sono più natura. Dioniso, secondo le parole di James Hillman, è «il tipico figlio della madre», solo che ha molte madri perciò «la relazione con le madri è discontinua»[47]. La contemporanea architettura dionisiaca non è in questo senso una negazione della Terra-Madre, non attua una virile proposta di mondo umano tuttavia fluttua in un orizzonte femminino incerto che non preclude la possibilità di imporre sregolati principi creativi. Come afferma Deleuze «Arianna è il primo segreto di Nietzsche[...] la sposa inseparabile dell’affermazione dionisiaca»[48], passando da Teseo a Dioniso Arianna va «dal principio che fonda allo “sprofondarsi” universale»[49]. In tal modo si passa dall’immagine di un mondo immobile a quella di un suolo mobile[50].
Se la valorizzazione di un suolo informe come tema architettonico viene avviata da molti architetti organici dal dopoguerra, principalmente con intenti di mimetismo naturalistico, si pensi ad esempio alle architetture pseudo-troglodite di Jacques Couëlle o a quelle sotterranee di Peter Vetsch, oggi è la natura intera che viene ripensata e riprogettata.
Come affferma Andrew Ballantyne nel suo libro Deleuze and Guattari for Architects «L'architettura può aprire ad altre possibilità» può condurre alla «grande 'canzone della terra'»[51]. L’architettura si fa natura, non nel rispettarne il suolo, ma nel ridefinirlo con piegature che lo frammentano e potenziano. La ricomposizione dei caratteri del suolo avviene architettonicamente secondo le modalità del rizoma il quale, secondo le parole di Deleuze e Guattari «connette un punto qualunque con un altro punto qualunque» ed opera secondo «una memoria corta o un’anti-memoria».[52] L’architettura della piega-suolo rizomatica mette in opera questa memoria corta progettuale, accoglie le suggestioni immediatamente sensibili del contesto circostante tendendo a trascurare i valori storico-culturali sedimentati. Non va in profondità, si muove sempre in una superficie-suolo mutevole coniugando un interesse formale immanente ai processi naturali con una volontà di nomadismo e di libertà dalle regole dogmatiche della natura stessa[53]. Si avvicina compositivamente alla natura e al suolo attraverso un processo di empatia formale o tramite l’utilizzo nella composizione di nuovi procedimenti fisico-matematici, i quali provano a reinterpretare alcune dinamiche evolutive della natura[54]. Oasi urbana per il nomade del nuovo millennio, questa architettura si fa ‘isola’, microcosmo delle qualità della natura, si presenta quasi come una rizomatica flora infestante.
Decisivi per i futuri sviluppi della piega-suolo Peter Eisenman e Zaha Hadid, partendo dalla decostruzione ne sviluppano la radicalità progettuale nella direzione di un suolo nuovo[55]. Eisenman è attento ai diagrammi concettuali della disciplina architettonica, Hadid ricerca modalità maggiormente espressive[56]. Questi due approcci sono in certo modo gli estremi tra cui oscilla buona parte della ricerca architettonica sul suolo degli ultimi anni.
Da questi maestri e non solo, basti pensare all’influenza di Reiser + Umemoto (Jesse Reiser e Nanako Umemoto) o dei Foreign Office Architects (FOA) (Alejandro Zaera Polo e Farshid Moussavi), si viene a produrre una architettura tendente ad una indistinzione natura-artificio che spesso utilizza compositivamente la piega come modalità di interscambio operativo suolo-architettura[57]. Per Luigi Coccia il suolo perde «definitivamente il significato di piano astratto [...] si trasforma esso stesso in esperienza architettonica»[58]. Per Matteo Zambelli «Nel nuovo modo di pensare il suolo della Landform Architecture è fondamentale il passaggio dall’idea di suolo come piattaforma [...] a quella che interpreta la piattaforma (hardware) come sistema operativo»[59]. Sono passate le critiche permanenti al sistema esistente proposte dalla decostruzione e dal decostruttivismo, che hanno tuttavia permesso di superare la fase dei rimandi storici dell’architettura postmoderna[60]. Come afferma Greg Lynn se l’architettura decostruttivista sfrutta «forze esterne nel nome proprio della contraddizione e del conflitto, recenti progetti della piega esibiscono una più fluida logica di connettività»[61]. Questo nuovo sistema unitario passa per un utilizzo profondo delle prospettive offerte dalla progettazione virtuale, la quale risulta in parte legittimata da un’idea di realtà che è indicata dal concetto stesso di ‘virtuale’ così come viene inteso da Deleuze, quale elemento non del possibile ma dell’invenzione radicale totalmente protesa alla novità[62]. L’artificio ha inglobato la natura, in tale prospettiva non si pone tanto la questione del rapporto con una natura da ripristinare o rinnovare architettonicamente, quanto con una nuova naturalità da incarnare nel fare architettonico. L’architettura esprime questa naturalità quanto più accetta la propria virtualità immanente proiettata verso l’inatteso[63]. Come fa notare Antonino Saggio nel suo testo Introduzione alla rivoluzione informatica in architettura «Di sicuro, il cambio del rapporto tra natura e architettura che abbiamo vissuto in questi decenni ha una connotazione che si lega al passaggio epocale dall’era industriale all’era dell’informazione»[64]. In Architecture in the digital age sempre Saggio suggerisce come dalla «tecnologia dell’informazione noi abbiamo una grande opportunità di trattare di nuovo con la natura»[65].
Il nuovo suolo virtuale-digitale sembra incarnare indistintamente la natura in tutte le sue forme, dall’inorganico minerale all’organico biologico, le architetture si fanno metamorfiche, ibride presenze nelle quali elementi minerali sono con-fusi con elementi biologici[66]. Molte architetture contemporanee si sviluppano in simbiosi con la terra e le preesistenze naturali. Il progetto Overflow del 1999 per un centro turistico a Echigo-Tsumari in Giappone di R&Sie... (François Roche e Stéphanie Lavaux) contiene nel suolo le nuove funzioni architettoniche e mantiene la natura in una condizione quasi selvaggia. Un altro esempio di geologica commistione suolo-architettura è dato dal progetto per il Museo di Tomihiro di Shi-ga in Giappone del 2002 dello studio di architettura MARCOSANDMARJAN (Marcos Cruz e Marjan Coletti).
Studiando le proprietà geometriche che non variano quando una figura viene sottoposta a trasformazioni continue, la topologia aiuta le architetture contemporanee a con-fondersi con l’ambiente, come afferma Giuseppa Di Cristina, «produce un’articolazione labirintica, tale da attribuire all’architettura qualità figurative che l’avvicinano alla natura»[67]. L’architettura si sovrappone sempre più alle forme del paesaggio. Jakob+MacFarlane (Dominique Jakob e Brendan MacFarlane) nel loro progetto del 2001 per una casa in Corsica (Maison H.) realizzano un clone del suolo attraverso il quale sviluppano il progetto edilizio. I Plasma Studio (Eva Castro e Holger Kehne) rimandano a movimenti del suolo in molte loro idee e realizzazioni. Nel concorso Link in the City del 2007 per la città di Kufstein in Austria il complesso proposto funge da connettore quasi naturale delle varie parti della città.
Se, come afferma Michel Serres «La sola differenza assegnabile tra le società animali e le nostre risiede [...] nell’emergenza dell’oggetto»[68], certa architettura del suolo, nell’operare una critica dell’idea di architettura come oggetto isolato, rimanda a strutture quasi animali. Lo studio Kol/Mac (Sulan Kolatan e William J. Mac Donald) nella Raybould House Addition a Sherman in Connecticut del 1998 compie una disintegrazione dell’identità oggettiva delle singole parti edilizie e attua una riconfigurazione ibridata degli elementi singoli[69]. Il gruppo NOX (Lars Spuybroek) propone spesso edifici che emergono dal suolo rimandando a fluidi processi evolutivi di tipo biologico, come nel progetto La Tana di Alice per Collodi del 2001.
Ellen Lupton nel suo libro Skin fa notare che, diversamente dall’organico pre-digitale nel quale vi è un’intimità passionale con la natura, l’intimità ora è più fredda e clinica[70]. Alcune nuove architetture si fanno suolo epidermico piegato inciso e sollevato, come nel progetto The Wave ad Aalborg in Danimarca del 2001 di DR_D Studio (Dagmar Richter). L’architettura-suolo si solleva come una pelle performativa anche nella proposta dello studio Patterns (Marcelo Spina e Georgina Huljich) per il museo di Tomihiro.
Il suolo piegato e contorto diviene il terreno sul quale tende a crescere una architettura biotecnologica[71]. Come afferma Paola Gregory «non esiste più scissione fra biosfera, sociosfera e tecnosfera»[72]. Nel Marui Project a Beijing del 2006 il gruppo SPAN (Matias del Campo e Sandra Manninger) propone una creazione nella quale dal suolo sorge una entità architettonica con piegature esasperate che rimanda ad inquietanti immaginari biologici. In modo simile opera lo studio Qua’ Virarch (Paul Preissner). Il progetto per il Gyeonggi-Do Jeongok Prehistory Museum in Korea del Sud del 2006, interagisce con il suolo e fa sorgere una architettura quasi tecno-floreale.
Un paradosso dell’architettura naturalistica contemporanea è il ritrovare la natura passando per il digitale-virtuale, esaltare il suolo operando con strumenti che tendono a negare la realtà materiale. Per Luisa Bonesio «La virtualità è la forma vuota in cui si smaterializza fittiziamente il mondo e di fatto lo si liquida definitivamente»[73]. Per Jean Baudrillard la virtualità è una «Forma aleggiante spacciata per felicità [...] Ci dà tutto ma, sottilmente, nello stesso tempo ci toglie tutto»[74]. La problematica natura dell’architettura contemporanea è al centro della riflessione dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia. Secondo Aaron Betsky è evidente «La tentazione di tuffarsi in un altro mondo [...] in cui le cose sono come noi vorremmo che fossero», oggi «gli architetti ci danno rovine di sogni, frammenti di utopie»[75]. Siamo sempre più di fronte ad utopie private, microutopie nomadiche e rizomatiche, si sviluppano ‘eterotopie’, secondo la definizione di Michel Foucault, luoghi reali «che costituiscono una sorta di contro-luoghi»[76], il cui modello più antico è il giardino. Oggi l’architettura stessa diviene un giardino stravolto, non più simbolo di paradiso intimo e circoscritto ma luogo della piega aperto ad ogni possibile contaminazione. Mark Dery parla delle fughe utopiche in territori irreali più o meno paradisiaci come qualcosa che «diventa sempre meno controllabile a ogni giorno che passa»[77], il cyberspazio diviene «l’oppio dell’uomo schizoide del Ventunesimo secolo, scisso tra corpo e mente»[78]. Ronald D. Laing, parlando dell’esperienza schizofrenica afferma che essa costituisce «la strategia speciale che una persona inventa allo scopo di vivere in una situazione in cui non può vivere»[79]. In senso architettonico si può forse pensare che lo schizo-architetto della piega-suolo utilizzi la virtualità per fuggire l’artificiosità deterministica della realtà contemporanea, per trovare, tramite la piega, un nuovo suolo naturale e vitale.
NOTE
[1] Alicia Imperiale, Nuove bidimensionalità. Tensioni superficiali nell’architettura digitale, Roma, Testo&immagine, 2001, p. 30.
[2] Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 2004, p. 5.
[3] Ibid., p. 131.
[4] Gilles Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 177-178.
Sempre secondo Deleuze, l’«infinitamente perfetto come proprio deve essere superato a favore dell’assolutamente infinito come natura […] Quel che è comune a Leibniz e Spinoza è la critica del chiaro e distinto cartesiano […] Leibniz con il concetto di monade e Spinoza con quello di modo non intendono altro che l’individuo come centro espressivo […] Invece di opporre Leibniz a Spinoza, rievocando l’importanza delle tematiche leibniziane del possibile e della finalità, è necessario, a nostro parere, mettere in luce il modo concreto in cui Leibniz interpreta e vive il fenomeno dell’espressione, dal momento che tutte le altre tematiche e tutti gli altri concetti derivano da esso» (Ibid., pp. 256, 257, 259).
[5] Martin Heidegger, «...Poeticamente abita l’uomo...» in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1991, p. 136.
[6] Félix Duque, Abitare la terra. Ambiente, Umanismo, Città, Bergamo, Moretti&Vitali, 2007, p. 103.
[7] Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Milano, Marinotti, 2000, p. 65.
[8] Christian Norberg-Schulz, L’abitare. L’insediamento, lo spazio urbano, la casa, Milano, Electa, 1995, p. 7.
[9] Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1991, p. 100.
[10] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 2002, p. 189.
[11] Mikel Dufrenne, Il senso del poetico, Urbino, 4venti, 1981, p. 270.
[12] Félix Guattari, Caosmosi, Milano, Costa & Nolan, 2007, p. 77.
[13] Finsterlin propone anche elementi ovoidali ripresi dalla Blob-architettura di inizio millennio. Come evidenzia Joseph Rosa, oggi «i designers educati digitalmente continuano a ridefinire la pedagogia e la pratica architettonica producendo forme che possono essere descritte come pieghe e blobs» (Joseph Rosa, Next generation architecture. Folds, blobs and boxes, New York, Rizzoli, 2003, p. 15) [T.d.A.].
[14] TristanTzara parla dell’architettura intra-uterina nel numero 3-4 della rivista Minotaure del 1933 nel testo Di un certo automatismo del gusto, Roberto Matta Echaurren delle tiepide pareti ondulate nel numero 11 della rivista Minotaure del 1938 nel testo Matematica sensibile, architettura del tempo.
[15] Jean François Lyotard, Economia libidinale, Firenze, Colportage, 1978, p. 6.
[16] Come Deleuze e Guattari scrivono, Jung ha «assolutamente ragione nel dire che il complesso di Edipo significa tutt’altro da sé, e che la madre è anche la terra [...] il suo torto è solo di credere di “superare” in tal modo la sessualità» (Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 2002, p. 181).
In generale la visione anti-edipica è attenta alle suggestioni di pensatori al limite della disciplina psicanalitica, basti pensare ai riferimenti frequenti a Georg Groddeck e a Wilhelm Reich.
[17] Per Arnold Gehlen l’uomo deve dominare il suo connaturato ‘eccesso pulsionale’, per questo, come egli stesso afferma, «è possibile una definizione dell’uomo come essere da disciplinare» (Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 88). Per Helmuth Plessner l’uomo è per natura ‘artificiale’, pertanto in quanto «essere eccentrico, non in equilibrio, privo di luogo e di tempo [...] egli deve “divenire qualcosa” e procurarsi l’equilibrio» (Helmuth Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 334).
[18] Erich Neumann, Il mondo archetipico di Henry Moore, Torino, Boringhieri, 1962, p. 48.
[19] Nei quadri di Bacon appare l’animalità dell’uomo, per Deleuze in essi «non vi sono sentimenti: solo affetti e null’altro, ossia [...] “sensazioni” e “istinti”» (Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 2002, p. 89). La piega partecipa a questa mutazione dell’umano, per Georges Didi-Huberman occorre «piegare e ripiegare il tessuto per dargli il potere di mascherare, di trasformare l’aspetto, di dissimulare l’umano e di far apparire l’animale» (Georges Didi-Huberman, Ninfa Moderna. Saggio sul panneggio caduto, Milano, Il Saggiatore, 2004, p. 111).
[20] Ubaldo Fadini, Figure nel tempo. A partire da Deleuze/Bacon, Verona, Ombre corte, 2004, p. 65.
Quanto a Bacon, nella seconda intervista rilasciata a David Sylvester, egli esplicitamente afferma: «Non ho mai cercato di essere orripilante [...] Ho sempre aspirato a esprimermi nel modo più diretto e più crudo possibile, e forse, se una cosa viene trasmessa direttamente, la gente la trova orripilante [...] Si può dire che un grido sia un’immagine d’orrore, ma io ero in realtà interessato a dipingere il grido più che l’orrore» (David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Milano, Skira, 2008, p. 44).
[21] Per José Miguel G. Cortés è sparita «la differenza tra figura e fondo, tra soggetto e luogo, tra interno ed esterno, tra corpo e architettura» (José Miguel G. Cortés, Espacios diferenciales. Experiencias urbanas entre el arte y la arquitectura, Paterna, Laimprenta CG, 2007, p. 57) [T.d.A.].
Georg Flachbart nel libro Disappearing Architecture from Real to virtual to quantum riflette sull’evoluzione dell’architettura digitale: «La sfida per gli architetti oggi è avvalersi di queste proprietà per concepire edifici come buoni non-luoghi (quantum objects), aiutando a liberare lo schizo (fonte di incessante innovazione e cambiamento)» (Georg Flachbart, Disappearing Architecture from Real to virtual to quantum in Georg Flachbart, Peter Weibel, Disappearing Architecture from Real to virtual to quantum, Basel, Birkhäuser, 2005, p. 14) [T.d.A.].
[22] Per Karl Jaspers «la schizofrenia si addice in qualche modo al nostro tempo» (Karl Japers, Genio e follia. Strindberg e Van Gogh, Milano, Raffaello Cortina, 2001, p. 174). Fredric Jameson parlando del mondo postmoderno sottolinea come «nel momento in cui si generalizza come stile culturale» la schizofrenia «cessa di avere un rapporto necessario col contenuto patologico» (Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, p. 59).
[23] Nel saggio Dementia Praecox o il gruppo delle schizofrenie del 1911 Eugen Bleuler chiama «schizofrenia la demenza praecox perché [...] una delle sue caratteristiche più importanti è la scissione delle diverse funzioni psichiche» (Eugen Bleuler, Dementia Praecox o il gruppo delle schizofrenie, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1985, p. 31). Nelle sue ricerche presso l’ospedale psichiatrico di Zurigo, il Burghölzli, Bleuler si avvale della preziosa collaborazione del giovane assistente Carl Gustav Jung. Le opinioni di Jung sono, come egli stesso afferma nel 1907, nel primo vero saggio psicanalitico dedicato alla schizofrenia, «pensieri maturati nel corso di conversazioni pressoché quotidiane col mio stimato maestro, professor Bleuler» (Carl Gustav Jung, Prefazione a Psicologia della schizofrenia, Roma, Newton Compton, 1970, p. 27). La schizofrenia ha un ruolo rilevante nella visione psicologica Junghiana. Per Jung l’inconscio collettivo «consiste nella somma degli istinti e dei loro correlati, gli archetipi. Come ogni uomo possiede degli istinti, così possiede anche le immagini originarie. Le prove di quest’affermazione sono offerte in primo luogo dalla psicopatologia di quei disturbi mentali nei quali erompe l’inconscio collettivo. Questo accade per esempio nella schizofrenia» (Carl Gustav Jung, La dinamica dell’inconscio, Torino, Boringhieri, 1980, p. 155).
[24] Ludwig Binswanger, Essere nel mondo, Roma, Astrolabio, 1973, p. 254.
In Melanconia e mania. Studi fenomenologici Binswanger si esprime in termini simili: «Nella schizofrenia tale consequenzialità oggettiva dell’esperienza naturale si è dimostrata turbata, interrotta nel suo continuum, e ciò si rivela nell’impossibilità di “un sostare indisturbato” presso le cose» (Ludwig Binswanger, Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 128). Sempre Binswanger, ne Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, suggerisce come ovunque l’esserci «si voti a un unico progetto di mondo, e sia pure nella forma di una passione predominante, dunque di una limitazione provvisoria della libertà, assistiamo allo spettacolo di una “mondanizzazione distorta” tendente all’infinito» (Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, Venezia, Marsilio, 1994, p. 193). Per lo psichiatra Harry Stack Sullivan troviamo nello schizofrenico «un pensiero che non ha alcun chiaro riferimento a schemi socialmente validi, ma che presenta invece una decisa preponderanza di elementi fantastici, del tipo che la persona normale conosce quando tenta di ricordare un sogno» (Harry Stack Sullivan, Scritti sulla schizofrenia, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 230). Lo schizofrenico, secondo le parole di Maurice Merleau-Ponty, «non vive più nel mondo comune, ma in un mondo privato», dove «tutto è sorprendente [...] poiché il mondo non è più ovvio» (Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2003, p. 376).
Secondo Eugène Minkowski lo schizofrenico mette «al posto del senso irrazionale di potenza, legato nell’individuo normale all’attività nel suo cammino incessante e inesauribile in avanti, l’affermazione di una potenza immaginaria nel presente» (Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 2004, p. 259). Lo slancio che non conosce ostacoli chiarisce una componente fondamentale dell’essere schizo, una sorta di idea di onnipotenza che non è difficile riscontrare in molte contemporanee espressioni architettoniche, nelle quali un singolo caso creativo sembra volere predominare sull’intero sistema paesaggistico o urbano. Per Minkowski «lo schizoide non è o troppo sensibile o troppo freddo [...] è le due cose nello stesso tempo» (Eugène Minkowski, La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, Torino, Einaudi, 1998, p. 12). L’atteggiamento schizo-architettonico è in questo senso a un tempo partecipe e distaccato nei confronti del reale. Parlando di un paziente schizofrenico, Minkowski afferma: «La sfera dei suoi interessi immediati è illimitata nello spazio, ma è sbarrata per quanto riguarda l’avvenire; la nostra, invece, è limitata nello spazio, ma non conosce limiti nell’avvenire» (Eugène Minkowski, Studio psicologico e analisi fenomenologica di un caso di melancolia schizofrenica (1923) in E. Minkowski, V. E. von Gebsattel, E. Straus, Antropologia e psicopatologia, Milano, Bompiani, 1967, p. 34). In senso architettonico l’atteggiamento per così dire ‘normale’, quello che Minkowski quantomeno tende a definire come ‘il nostro’ atteggiamento di fronte alle cose, è l’atteggiamento storico che accetta l’immagine dell’avvenire e tende ad escludere l’imprevedibilmente nuovo. L’individuo-architetto schizo pone al contrario tutte le molteplicità creative nel presente dell’opera, quasi indifferente alla prospettiva storica, al solco nel quale l’architettura va a operare.
[25] Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 2002, p. 5.
Per Katia Rossi lo schizo «come Homo natura vive l’esperienza straziante di un’estrema prossimità al centro intenso e vivente della materia» (Katia Rossi, L’estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto, Bologna, Pendragon, 2005, p. 178).
[26] Silvano Arieti, Studi sulla schizofrenia, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1975, p. 3.
L’individuo schizofrenico non opera più secondo canoni comuni, sembra quasi tornare ad ere dimenticate. Una ipotesi estrema sulla schizofrenia in questo senso viene fornita da Julian Jaynes nel suo studio sui processi della mente bicamerale, secondo la sua opinione «potremmo dire che, prima del II millennio a.C., tutti erano schizofrenici» (Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Milano, Adelphi, 1996, p. 482).
[27] Paul-Claude Racamier, Gli schizofrenici, Milano, Raffaello Cortina, 1983, p. 37.
[28] Questa architettura del suolo-piega, arcaica e barocca ad un tempo, è sostenuta da una prepotente volontà di partecipazione e gestione dei processi naturali, a volte in chiave più istintiva, altre volte in chiave più scientifico-matematica. Per Racamier la procreazione «è al centro dei fantasmi degli schizofrenici: è la procreazione non soltanto dell’oggetto, ma di sé stessi» (Ibid., p. 65). Ad un primo passaggio in favore di una architettura materna proposta dall’organicismo storico, fa seguito una ‘nuova’ architettura della ‘maternitudine’ autogenerante.
[29]Heinrich Wölfflin, Rinascimento e Barocco. Ricerche intorno all’essenza e all’origine dello stile barocco in Italia, Firenze, Vallecchi, 1988, p. 183.
[30] Dino Formaggio, Il Barocco in Italia, Milano, Arnoldo Mondadori, 1960, p. 18.
Elementi emotivi e irrazionali conducono la poetica barocca verso il dubbio e la sperimentazione, si può dire in tal senso, come afferma Omar Calabrese nel suo saggio L’età neobarocca, che «ogni fenomeno “barocco” procede [...] per “degenerazione” (ovvero: destabilizzazione) di un sistema ordinato, mentre ogni fenomeno “classico” procede per mantenimento del sistema di fronte alle più piccole perturbazioni» (Omar Calabrese, L’età neobarocca, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 201-202).
[31] Hans Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Milano, Rusconi, 1974, pp. 216-217.
Se la “perdita del centro”, la disarmonia, l’asimmetrico, sono aspetti rilevanti nelle espressioni artistiche odierne, come suggerisce Gillo Dorfles nel suo testo Elogio della disarmonia, non è detto «che in questi fenomeni si annidi soltanto un aspetto deteriore; anzi [...] è forse dagli stessi che potrà derivare quel recupero dell’elemento fantastico e mitopoietico troppo spesso annichilito da tante forze meccanicistiche e tecnocratiche presenti nella cultura dei nostri giorni» (Gillo Dorfles, Elogio della disarmonia, Milano, Garzanti, 1986, p. 182).
[32] Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 2004, p. 117.
[33] Claude Parent, Vivere “all’obliqua”, Bologna, Calderini, 1978, p. 63.
[34] Esemplificazione delle idee di Kiesler, l’ Endless House, secondo le sue stesse parole: «È senza fine come il corpo umano [...] L’Endless è abbastanza sensuale, più simile al corpo di una femmina in contrasto ad una architettura maschile ad angoli acuti» (Frederick J. Kiesler, The “Endless House”: a man-built cosmos (1962) in Selected writings, Stuttgart, Verlag Gerd Hatje, 1996, p. 126) [T.d.A.].
[35] Per Deleuze e Guattari l’uovo «lo si porta sempre con sé come il proprio ambiente di sperimentazione» (Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi, 2006, p. 256). Afferma Brian Massumi: «Un ritorno al corpo senza organi è in effetti un ritorno alla frattalità [...] Non regressione: invenzione» (Brian Massumi, A User’s Guide to Capitalism and Schizophrenia. Deviations from Deleuze and Guattari, Cambridge, MIT, 1992, p. 85) [T.d.A.]. La forma architettonica è per Guattari chiamata a funzionare come «operatore catalitico che innesta reazioni a catena [...] che ci fanno uscire da noi stessi e ci aprono ad inediti campi del possibile» (Félix Guattari, Cartografia schizoanalitica. L’enunciazione architettonica in AA.VV., Architettura della sparizione, architettura totale, Milano, Mimesis, 2005, p. 31).
[36] In linea con quel sentimento di cui parla Michel Serres ne Il contratto naturale: «Partire – verso la natura – per nascere» (Michel Serres, Il contratto naturale, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 146).
[37] Franco Rella, Il mito dell’altro. Lacan, Deleuze, Foucault, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 35.
Se l’espulsine dall’Eden è una caduta nel peccato essa è anche un principio di fondazione dell’io, ciò che primariamente manca alla coscienza schizofrenica. Come fa notare Harold F. Searles l’orientamento dello schizofrenico «verso gli altri come verso di sé si fonda sulla convinzione che tutti gli esseri umani siano potenzialmente onnipotenti [...] non può accettare neppure la propria incapacità di rendere la terra un paradiso» (Harold F. Searles, L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia, Torino, Einaudi, 2004, p. 118). Non ponendo più confini tra territorio reale e immaginario, per lo schizofrenico è la terra intera che diventa giardino edenico dilatato.
Wilhelm Reich, spesso citato nei suoi lavori da Deleuze, secondo Aldo Carotenuto con «formulazioni che richiamano il linguaggio della religione [...] parla di “paradiso” per connotare “il grande desiderio di redenzione [...] di ristabilire lo stato naturale, non corazzato”» (Aldo Carotenuto, La strategia di Peter Pan, Milano, Bompiani, 1995, p. 56).
[38] Nel suo libro Nel grembo della vita Massimo Venturi Ferriolo sottolinea che quando si nomina il giardino «la natura è già soggiogata all’uomo, non selvaggia, come i rapporti sociali che lo distinguono dagli animali e dai barbari», l’uomo con la techne «domina il selvaggio e, spesso, lo trasforma nel giardino: regola la natura» (Massimo Venturi Ferriolo, Nel grembo della vita, Milano, Guerini e Associati, 1999, pp. 128-129). Il luogo-giardino femminino-femminile con la piega di Deleuze viene stravolto. Come ricorda Elizabeth Grosz, per Deleuze c’è «un tipo di “progressione” nel divenire, un ordine o “sistema” nel quale il divenire-donna è, per tutti i soggetti, un primo passo, che conduce al divenire-animale, e poi al divenire impercettibile» (Elizabeth Grosz, A Thousand Tiny Sexes: Feminism and Rhizomatics in AA.VV. Gilles Deleuze. And the Theater of Philosophy, New York, Routledge, 1994, p. 208) [T.d.A.]. Donna J. Haraway puntualizza un elemento importante per la comprensione del nuovo modo di intendere il rapporto con la femminile natura: «Non è solo che “dio” è morto, è morta anche la “dea”; o meglio, vengono entrambi rivitalizzati nei mondi pervasi dalla politica microelettronica e biotecnologica» (Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 57). Da qui si hanno aperture verso nuove forme di esistenza umana, come l’immagine dell’uomo cyborg il quale, per riprendere il tema del modello edenico, secondo le parole della Haraway «non è innocente, non è nato in un giardino» (Ibid., p. 82). Come sottolinea Antonio Caronia, «punto chiave del discorso di Haraway sul cyborg è che i processi di ibridazione con la tecnologia esonerano i corpi e i soggetti dalla necessità di riferirsi a un “mito di fondazione”, a un vagheggiamento dell’origine come ancoraggio dell’identità individuale e collettiva» (Antonio Caronia, Il cyborg, Milano, ShaKe, 2008, p. 113).
[39] Benoît Goetz, La dislocation: critique du Lieu in Chris Younès, Michel Mangematin (a cura di) Lieux contemporains, Paris, Descartes & Cie, 1997, p. 95 [T.d.A.].
[40] Lorenzo Giacomini, Cosmo e abisso. Pensiero mitico e filosofia del luogo, Milano, Guerini e Associati, 2004, pp. 196-197.
[41] Georg Simmel nel suo saggio Il conflitto della cultura moderna del 1918, riflettendo sul rapporto tra le nuove filosofie della vita e le espressioni estetiche da esse derivanti, afferma come «non si tratta assolutamente più d’una nuova forma che intraprende la lotta contro una vecchia, ma si tratta della vita che in ogni possibile sfera si ribella contro questo suo dover scorrere in forme fisse di qualsiasi specie» (Georg Simmel, Il conflitto della cultura moderna, Roma, Bulzoni, 1976, p. 109). Il suolo diviene il soggetto elettivo di questa ribellione informale, quasi indipendente dagli altri elementi del mondo naturale. L’aspetto urbano e paesaggistico perdono progressivamente il loro potere di ‘contenere’ il senso del suolo. Per Deleuze e Guattari «il cielo, il mare, l’oceano, l’illimitato [...] tendono a divenire orizzonte: la terra è così circondata, globalizzata, «fondata» da questo elemento che la tiene in equilibrio immobile e rende possibile una Forma» (Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi, p. 724).
[42] Renato Tomasino, I cavalieri del caos, Palermo, L’Epos, 2004, p. 14.
[43] Alfred North Whitehead, Il concetto della natura, Torino, Einaudi, 1975, p. 129.
[44] Gregory Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, Torino, Adelphi, 2006, p. 197.
Somaini, come afferma Enrico Crispolti, «ha piena fiducia nella forza suggestiva dell’immagine contestatoria e traumatizzante» (Enrico Crispolti, Urgenza nella città, Milano, Mazzotta, 1972, p. 51), immagine che attua una operazione perturbativa sostenuta, con le parole di Claudio Spadoni, da «un’evidente connessione simbolica tra la profondità dell’inconscio e la dimensione più chiara della coscienza» (Claudio Spadoni, Frammenti di lettura per l’opera di Somaini in AA.VV., Somaini. Realizzazioni, progetti, utopie, Bologna, Bora, 1984, p. 19).
[45] Deleuze afferma: «Il labirinto ci porta all’essere [...] c’è essere solo del labirinto» (Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002, p. 281).
[46] Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 2004, p. 10.
[47] James Hillman, Saggi sul Puer, Milano, Raffaello Cortina, 1988, pp. 132-133.
[48] Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002, p. 32.
[49] Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 438.
[50] Come suggerisce Brian Massumi il suolo «non è un supporto statico [...] è pieno di movimento» (Brian Massumi, Parables for the virtual. Movement, Affect, Sensation, Durham & London, Duke University Press, 2002, p. 10) [T.d.A.].
[51] Andrew Ballantyne, Deleuze and Guattari for Architects, London, Routledge, 2007, p. 60 [T.d.A.].
Elizabeth Grosz, nel suo libro Chaos, Territory, Art. Deleuze and the Framing of the Earth, indica le dinamiche dei nuovi processi creativi e il loro rapporto con l’esistente materiale, per l’autrice l’arte «prende ciò di cui ha bisogno [...] dalla terra per produrre i suoi propri eccessi, sensazioni con una vita loro propria, sensazioni di “vita nonorganica”» (Elizabeth Grosz, Chaos, Territory, Art. Deleuze and the Framing of the Earth, New York, Columbia University Press, 2008, p. 9) [T.d.A.].
[52] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi, 2006, p. 57.
[53] L’uomo nomade secondo Jacques Attali deve essere in grado di «sostare come nomade e di spostarsi come stanziale [...] evitare sia la routine di un luogo sia la precarietà di una strada» (Jacques Attali, L’uomo nomade, Milano, Spirali, 2006, p. 480).
[54] Basti pensare ai sistemi caotici di Ilya Prigogine, alla teoria delle catastrofi di René Thom o alla geometria frattale di Benoît Mandelbrot. Secondo Ilya Prigogine la scienza «inizia a essere in grado di descrivere la creatività della natura, e il tempo, oggi, è anche il tempo che non parla più di solitudine, ma dell’alleanza dell’uomo con la natura che egli descrive» (Ilya Prigogine, Le leggi del caos, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 85). Greg Lynn ricerca una sorta di imparzialità formale biologica, fa proprio l’assunto di D’Arcy Wentworth Thompson secondo il quale «non esistono altre forme organiche oltre a quelle che rispettano le leggi fisiche e matematiche» (D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 14). Come suggerisce Anthony Vidler nel suo saggio Skin and Bones. Folded Forms from Leibniz to Lynn, rispetto all’informe di Bataille, che «resiste completamente ad ogni categorizzazione formale - L'informe di Lynn è in realtà estremamente formalizzato» (Anthony Vidler, Skin and Bones. Folded Forms from Leibniz to Lynn in Warped Space. Art, Architecture, and Anxiety in Modern Culture, Cambridge, MIT, 2001, pp. 227-228) [T.d.A.].
[55] Come affermano Ilka e Andreas Ruby nel loro libro Groundscapes, negli anni novanta «Eisenman ha esaminato questa trasformazione nei suoi scritti teoretici, con la costruzione di concetti come un suolo fatto figura e una figura fatta suolo come materializzazione architettonica del suolo fuori dalla dialettica classica tra figura e suolo. La ricerca architettonica su questo nuovo suolo potenziale divenne uno dei punti centrali nell'architettura di Zaha Hadid» (Ilka & Andreas Ruby, Groundscapes. The rediscovery of the ground in contemporary architecture, Barcelona, Gustavo Gili, 2007, p. 23) [T.d.A.].
[56] Secondo Anthony Vidler, Eisenman svela «la natura schizografica di un’architettura che rifiuta i propri oneri monumentali tracciando in forma scritta la propria condizione patologica» (Anthony Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, p. 160).
Il carattere schizo-architettonico delle architetture della piega le pone in una sorta di continuità con le ideazioni della decostruzione e, al contrario, le allontana da certi confortanti propositi dell’organicismo storico. Paolo Vincenzo Genovese, nel suo testo Dalla decostruzione alla Cyber-Architettura e oltre, riflette su queste parentele architettoniche. Per Genovese esiste «una duplice motivazione nella visione di uno spazio decostruito. Da una parte esso è espressione di uno stato di inquietudine rivolto alla rappresentazione irrazionale, mentre dall’altro esiste una volontà di delineare alcuni caratteri della contemporaneità. Il primo aspetto è legato ad un cambiamento culturale, già in atto dalle ricerche geometriche degli anni cinquanta e sessanta. [...] Il secondo motivo, più sotterraneo e meno esplicito nel campo della critica architettonica, è di carattere psicoanalitico. L’architettura decostruttivista è uno specchio dell’attuale crisi di identità [...] Nella trattazione sulla cultura Cyber è evidente come vi sia una stretta interconnessione tra aspetti legati alla sociologia e alla progettazione degli spazi» (Paolo Vincenzo Genovese, Dalla decostruzione alla Cyber-Architettura e oltre. L’uso del computer nella progettazione degli spazi non-euclidei, Napoli, Liguori, 2005, p. 15).
[57] Come afferma Kurt W. Forster presentando la mostra internazionale di architettura di Venezia del 2004, numerosi progetti recenti si basano «sulle superfici continue – siano esse ripiegate o curve – e su un esteso concetto di topografia in quanto condizione capace di interessare insieme costruzione [...] e sito» (Kurt W. Forster, Architettura ombre riflessi in Metamorph. 9. mostra internazionale di architettura. Focus, Venezia, Marsilio, 2004, p. 9).
[58] Luigi Coccia, L’architettura del suolo, Firenze, Alinea, 2005, p. 27.
[59] Matteo Zambelli, Landform Architecture, Roma, Edilstampa, 2006, p. 23.
[60] Come afferma Bruno Zevi nel manifesto di Modena, alla fine degli anni Settanta si era «alla vigilia di una stagione di “grado zero”» che fu bloccata «dal dilagante rigurgito Post-Modern» (Bruno Zevi, Il manifesto di Modena. Paesaggistica e grado zero della scrittura architettonica, Venezia, Canal, 1998, p. 31). Passata la stagione dei rimandi storici vengono oggi proposte nuove forme di architettura organica, nuovi organicismi architettonici.
[61] Greg Lynn, The folded, the pliant and the supple in Folds, bodies & blobs. Collected essays, Bruxelles, La lettre volée, 2004, p. 116 [T.d.A.].
Come sottolinea John Rajchman nel suo libro Constructions «Gilles Deleuze è il filosofo contemporaneo che ha il ruolo maggiore in questa idea di costruzione; "decostruzione" non è una parola del suo idioma» (John Rajchman, Constructions, Cambridge, MIT, 1997, p. 2) [T.d.A.].
[62] Per Deleuze «il virtuale non è la stessa cosa del possibile: la realtà del tempo è l’affermazione di una virtualità che si realizza, e per la quale realizzarsi vuol dire inventare» (Gilles Deleuze, Bergson (1859-1941) in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Torino, Einaudi, 2007, p. 31).
Per Jean-Luc Nancy, la filosofia di Gilles Deleuze «è una filosofia virtuale, nel senso in cui si impiega oggi questa parola quando si parla, in una maniera stranamente indifferente, d’immagine o di realtà virtuale, designando con ciò un universo interamente formato da immagini, e non solamente da immagini ad alto tenore di illusione del reale, ma piuttosto da quelle che non lasciano più posto all’opposizione tra il reale e l’immagine» (Jean-Luc Nancy, Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, Verona, Ombre corte, 2008, p. 15).
[63] Neil Spiller, nel suo libro Digital architecture now, afferma che il nostro mondo «continuerà a sentire l'assalto furioso dello tsunami digitale, e gli architetti devono addomesticare il suo potere per creare nuove architetture sublimi» (Neil Spiller, Digital architecture now. A global survey of emerging talent, London, Thames & Hudson, 2008, p. 13) [T.d.A.].
[64] Antonino Saggio, Introduzione alla rivoluzione informatica in architettura, Roma, Carocci, 2007, p. 43.
[65] Antonino Saggio, Other challenges in Branco Kolarevic (a cura di), Architecture in the digital age. Design and manufacturing, New York, Taylor & Francis, 2003, p. 233 [T.d.A.].
Certa architettura virtuale va nella direzione di una riconquista della natura nel suo farsi natura. L’attività architettonica presenta entità incerte che suggeriscono un essere umano proteso verso una sempre maggiore interconnessione della propria natura interiore istintuale-biologica con la natura esteriore del mondo. Per Pierre Lévy la virtualizzazione «si presenta come il movimento stesso del “farsi altro”, eterogenesi dell’umano» (Pierre Lévy, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina, 1997, p. 2). Come sottolinea Sherry Turkle, con le esperienze elettroniche siamo «incoraggiati a pensare noi stessi come esseri fluidi, emergenti, decentrati, molteplici, flessibili e in continuo divenire» (Sherry Turkle, La vita sullo schermo, Milano, Apogeo, 1997, p. 397).
[66] Le proposte di architettura raccolte nei saggi Hypersurface I e II rappresentano un estremo tentativo di sondaggio dei territori della sperimentazione digitale schizo. Secondo Stephen Perrella «hypersurface viene a definire una nuova condizione dell’intervento umano, del post-umanesimo» (Stephen Perrella, Hypersurface theory: architecture><culture in Stephen Perrella (a cura di) Hypersurface architecture, London, Academy Editions, 1998, p. 8) [T.d.A.]. Nel saggio Electronic baroque sempre lo stesso autore rimarca la componente estraniante dei nuovi processi architettonici. Per Perrella i progetti «prodotti dalla tesi generale di architettura della hypersurface comportano nuove relazioni e affetti tra media [...] e superfici topologiche in architettura [...] Attualmente e storicamente, comunque, le relazioni tra immagine e forma sono sovrapposte schizofrenicamente» (Stephen Perrella, Electronic baroque. Hypersurface II: Autopoeisis in Stephen Perrella (a cura di) Hypersurface architecture II, London, Academy Editions, 1999, p. 5) [T.d.A.].
[67] Giuseppa Di Cristina, Architettura e Topologia. Per una teoria spaziale dell’Architettura, Roma, Dedalo, 2002, p. 15.
Peter Zellner nel suo libro sullo spazio ibrido nelle nuove forme dell’architettura digitale suggerisce come il paradosso della topologia sia quello di creare «una continua presa dentro e fuori, indietro e in avanti, su una superficie senza fine o inizio» (Peter Zellner, Hybrid space. New forms in digital architecture, London, Thames & Hudson, 2000, p. 13) [T.d.A.].
[68] Michel Serres, Genesi, Genova, Il melangolo, 1988, p. 173.
[69] Con riferimento alla chimera, essere mitologico con parti del corpo di animali diversi.
[70] Ellen Lupton riflette sulle nuove forme organiche: «Il vocabolario del design organico - dalle estasi dell’ornamento barocco al biomorfismo della metà del ventesimo secolo - ha sempre mosso verso l'erotico, suggerendo le curve e i movimenti del corpo umano. Nel design contemporaneo, l'erotismo è ancora presente ma tenuto a distanza [...] le forme sensuali sono rese cliniche» (Ellen Lupton, Skin: New Design Organics in Ellen Lupton (a cura di), Skin. Surface, substance + design, New York, Princeton Architectural Press, 2002, p. 34) [T.d.A.]. La corporeità è sempre più impersonale e distante, l’uomo si fa animale e l’animale si fa elemento biologico. Come Antonin Artaud propone un ‘Teatro della Crudeltà’ e Francis Bacon una pittura della crudeltà, oggi si sviluppa una sorta di architettura della crudeltà. Diversamente da quanto avviene con le architetture organiche del periodo pre-digitale, l’intimità con la natura è distaccata e fredda, simile a quella presente in un rapporto paziente-chirurgo.
[71] Per Slavoj Žižek la biotecnologia non imita la natura, «rivela il meccanismo sotterraneo che la genera, così che [...] la stessa “realtà naturale” diviene qualcosa di “simulato”» (Slavoj Žižek, L‘epidemia dell’immaginario, Roma, Meltemi, 2004, pp. 190-191).
[72] Paola Gregory, Territori della complessità. New Scapes, Torino, Testo & Immagine, 2003, p. 64.
[73] Luisa Bonesio, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Casalecchio, Arianna Editrice, 2002, p. 60.
[74] Jean Baudrillard, Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 70.
Sempre secondo Baudrillard, è «un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà» (Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 12).
[75] Aaron Betsky, Out There. Architecture beyond building vol. 1 Installazioni, Venezia, Marsilio, 2008, p. 18.
[76] Michel Foucault, Spazi altri in Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Milano, Mimesis, 2002, pp. 23-24.
[77] Mark Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 21.
[78] Ibid., p. 279.
[79] Ronald D. Laing, La politica dell’esperienza. E l’uccello del paradiso, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 114.