SCARTO, RICICLAGGIO E ARCHITETTURA

 

 

 

Le architetture e le arti che propongono una estetica dello scarto, riesumano il rimosso produttivo e sociale. Poeticizzando il riciclaggio, lottano contro i limiti del gusto, contro l’onnipotenza della tecnica, contro l’idea di stile e contro un senso unicamente storico delle opere e dell’esistenza. Il recupero artistico degli scarti è utopico e, «come l’utopia, infantile, irritante, salvifico»[1]. Atto ludico e alchemico, suggerisce una percezione materialistica, immanente. Affronta lo spettro del disgusto, ciò che è sommamente, secondo le parole di Jacques Derrida, «il non-trascendentalizzabile, il non-idealizzabile»[2]. Chi non cerca confusioni semantiche evita di confrontarsi con i rifiuti, dimentica velocemente lo scarto produttivo come quello biologico[3]. Chi si attarda e si relaziona accede alle soglie del perturbante e del caotico. Mosso da passione o da volontà di esorcizzare il timore dell’indistinto compiendolo, rende la sua opera radicalmente differente da ogni orgogliosa posizione di autosufficienza creativa. Arti moderne e contemporanee, in particolare a partire dal Dadaismo, cercano di «sostituire la sensazione “naturale” di schifo che ogni rifiuto provoca con un sentimento di melanconia o di pietà verso tutto quel che è “di troppo”»[4]. Influenzate da queste esperienze, certe architetture si riaccostano alla realtà in modo aperto e disponibile, tentano di rivitalizzare un mondo eccessivamente artificiale e sistematico. Donando nuove possibilità ad oggetti di scarto suggeriscono un’operazione sovversiva nei confronti di un sistema industriale votato alla sistematica reversibilità degli elementi materiali prodotti. In modo esplicito Günther Anders afferma che la nostra epoca «testimonia con sufficiente chiarezza che qualsiasi cosa, letteralmente, può venir dichiarata immeritevole di esistere»[5]. Evitando un utilizzo unicamente strumentale degli oggetti, le architetture del riciclaggio ne consentono una proliferazione di senso. Non rinchiudendoli in schemi interpretativi già definiti accettano il mistero materiale della loro presenza, sanno che se ciò «che non serve a nulla è considerato vile, privo di valore» tuttavia, come suggerisce Georges Bataille ne Il limite dell’utile, «ciò che serve è soltanto un mezzo»[6]. Utilizzando materiali informi, non plasmabili a proprio piacimento, queste architetture non operano secondo un’idea di stile preordinato[7]. In tale senso la pur necessaria riconversione degli scarti in materie prime è forse insufficiente ad incrinare la fredda logica delle merci. Operando ancora nell’orizzonte dell’idealismo, fa dello scarto una sostanza completamente disponibile, continua a ribadire la superiorità della forma sulla materia. L’attenzione ecologica verso il riciclo può invece condurre ad una comprensione e ad un apprezzamento dei processi naturali e caotici, evitando un controllo autoritario su di essi. Può accettare e suggerire il fatto che, come dice Gregory Bateson, essendoci «infiniti modi disordinati le cose andranno sempre verso il disordine e la confusione»[8]. Una visione non tecnica ma creativa del riciclo si avvicina a ciò che Félix Guattari chiama logica ecosofica,  «simile a quella dell’artista che può venir spinto a rimaneggiare la sua opera a partire da un dettaglio accidentale, da un fatto-incidente che di colpo fa biforcare il suo progetto iniziale»[9]. L’apparire di un oggetto imprevisto apre la via ad una messa in crisi della percezione temporale. Rosalind Krauss afferma che quando «di fronte al readymade, lo spettatore si rende conto che esso è stato gettato nel flusso del tempo estetico come se provenisse da nessuna parte, la catena delle cause ed effetti e la successione razionale degli eventi [...] svaniscono per sempre»[10]. Eludendo la consequenzialità storica, l’estetica del riciclaggio fa del passato una fonte di inedite possibilità per il presente. Abbandona approcci tradizionali e storicistici per altri più attenti alle dimensioni imprevedibili e vitali dell’esistenza. Vive e opera in quello che Eugène Minkowski chiama tempo vissuto, sa che il passato non rivivrà mai pienamente nel presente, che la storia  «anche quando riuscirà a farci rivivere il passato, non potrà mai far vivere ancora il passato»[11]. Conduce da un’architettura centrata sul timore di inadeguatezza rispetto ad un presunto canone storico, ad operazioni formali de-colpevolizzate volte al raggiungimento di nuove percezioni estetiche e sensoriali.

Alcuni artisti del novecento indicano agli architetti la strada per giungere a questa nuova dimensione creativa ed esistenziale. Fondamentale è Kurt Schwitters, con le sue creazioni Merz e Merzbau, composte da materiali eterogenei. L’artista di Hannover, che considera l’architettura come l’opera d’arte più completa, crea una personale poetica dadaista, rivolta non tanto alla distruzione dell’arte, quanto ad una sua rifondazione come luogo di elezione per gli scarti della civiltà.  Rinnovato dalla personale visione dell’autore, «cosa significasse il materiale utilizzato prima della sua utilizzazione è indifferente»[12]. Nella “modalità operativa” Merz il valore presenziale dell’oggetto e la sua rielaborazione creativa procedono di pari passo[13]. Gli artisti impegnati nel recupero di scarti di vario genere, nel corso del novecento aumentano esponenzialmente. Alberto Burri con i suoi sacchi e le sue plastiche conduce la tela pittorica a nuove esperienze materiche, esplorate in generale dagli artisti informali. Il movimento americano Neo-Dada, in particolare con Robert Rauschenberg, usa i materiali di recupero della cultura di massa in chiave estetico-compositiva. Questioni simili, con un approccio più concettuale, vengono affrontate dal Nouveau Réalisme europeo. Alcune opere di César e quelle di John Chamberlain dialogano sul tema del recupero di lamiere d’auto. Jean Tinguely propone inquietanti costruzioni meccaniche aperte all’utilizzo caotico di elementi di scarto. L’arte povera ricerca significati primordiali della materia e dello spazio. Gordon Matta-Clark,  architetto per formazione, ridefinisce i limiti dell’architettura intervenendo con operazioni di decomposizione su edifici abbandonati, propone anche un modulo edilizio a costo zero fatto di spazzatura.

Artisti-architetti del riciclo si sono avventurati a sperimentare soluzioni estetiche inusuali per opere edili sui generis. La volontà impellente di lasciare una traccia creativa in un contesto anonimo trova nei materiali di recupero l’ideale elemento per una riconversione di senso dell’esistente. Simon Rodia, in un piccolo lotto triangolare a Los Angeles, realizza dal 1921 al 1954 le sue Watts Towers, utilizzando piccoli elementi metallici per la struttura portante ed innumerevoli materiali di riutilizzo per le decorazioni, tra cui materiali ceramici e vetro applicati su una base di malta. Clarence Schmidt negli anni sessanta, a Woodstock, realizza The House of Mirrors, un complesso di materiali di scarto realizzato in maniera organica senza un piano progettuale prestabilito. Una medesima propensione all’improvvisazione intuitiva e creativa è condivisa da Elemér Zalotay, architetto ungherese che nella sua casa a Ziegelried in Svizzera, compone un caotico assemblaggio di elementi riciclati. Il canadese Richard Greaves dagli anni ottanta, con assi di legno, giornali, libri e altri materiali di riciclo, inizia la realizzazione di edifici in costante espansione che bandiscono l’angolo retto secondo una poetica Art Brut. Nell’ottica di una possibile compresenza di aspetti estetici ed ecologici, un ruolo rilevante ha l’opera dell’artista austriaco Friedensreich Hundertwasser. Le sue architetture escludono il concetto stesso di rifiuto. Ogni elemento deve ritornare in circolo per riacquistare dignità e naturalezza, deve partecipare al rinnovato rapporto di armonia fra uomo e ambiente, integrarsi con alberi e piante. Elementi decorativi popolari, bottiglie, pezzi di ceramica, concorrono  a destituire la “empia” linea retta. La loro conformazione artistica non nasconde un debito profondo nei confronti delle opere del maestro catalano Antoni Gaudí. Egli è il padre, come già indicano i surrealisti, di tutte quelle tendenze dell’architettura che abbandonano i sentieri sicuri del conosciuto per affrontare gli infiniti meandri della materia. Così avviene anche per il riutilizzo dei materiali di scarto in architettura. Aiutato dal talento  del collaboratore Josep Maria Jujol, Gaudí integra ceramiche rotte e altri elementi di recupero in realizzazioni magmatiche dal forte carattere espressivo e naturalistico. La sua attenzione per gli aspetti materiali dell’architettura trova profonda risonanza nell’architettura catalana contemporanea, nelle opere di Carme Pinós, Enric Miralles e Benedetta Tagliabue. Importante per la definizione del ruolo poetico dei materiali comuni nell’architettura è la ricerca dell’americano Bruce Goff. Posaceneri, stampi per dolci e altri elementi di scarso pregio economico sono inseriti in modo fantasioso nelle sue architetture. Impara l’amore per la poetica dei materiali alla scuola organica del maestro Frank Lloyd Wright, a cui  aggiunge quel sentimento dell’imprevisto che ne fa un appassionato promotore di inattese commistioni. I suoi esempi influenzano quegli architetti che si riconoscono nei Friends of Kebyar, propensi a sperimentazioni formali di carattere wrightiano-gaudiano. Altri architetti riflettono sugli aspetti ecologico-naturalistici dei frammenti e dei resti. Per Lucien Kroll «bisogna reinventarequesto naturale, che non esiste più, ricostruirlo laboriosamente, trovarne i frammenti e provare a comporli»[14]. Suggerisce un recupero del valore dei frammenti anche la proposta di De-architecture[15] di James Wines, protagonista con il gruppo SITE di riconfigurazioni “demolitive” su edifici esistenti. Suggestioni dal lavoro di Robert Rauschenberg e Claes Oldenburg sono presenti nelle opere di Frank Gehry, soprattutto in quelle di fine anni settanta e inizio anni ottanta. Operando a contatto diretto con l’ambiente artistico di Venice, Gehry traspone e rielabora in chiave architettonica le ricerche del Neo-Dada e della Pop Art. Le sue creazioni si sviluppano secondo una modalità antidogmatica attenta ai materiali poveri. Il tradizionale, ufficiale e classico rapporto di distanza critica tra idea compositiva e supporto materiale viene abbandonato. «The end point of architecture and art», suggeriscono le sue opere secondo Aaron Betsky, «is not one of reductive abstraction, but one of merging architecture and the physical world»[16]. Gehry  trasfigura la banalità urbana utilizzando lamiere, reti metalliche e tutti quei prodotti a basso costo che solitamente vengono impiegati per la costruzione di capanni provvisori, relegati negli angoli più nascosti e privati delle abitazioni. Nelle sue destabilizzanti creazioni il rimosso materiale della società consumistica rivendica cittadinanza. Altro architetto della cosiddetta scuola di Los Angeles che, soprattutto nelle prime opere della sua carriera, si confronta con materiali inusuali è Eric Owen Moss. Definito da Philip Johnson “il gioielliere del ciarpame”, consente a materiali eterogenei di disturbare l’univocità del progetto e di guadagnarsi una posizione  rilevante e deforme. In generale, buona parte degli architetti che operano secondo una poetica vicina alla decostruzione sono preparati a gestire l’insorgere di processi caotici ed improvvisi, tra i quali la possibile valorizzazione di materiali eterogenei di scarto, si pensi ad esempio alla progettazione instabile ed emotiva di Michele Saee o alle operazioni “ricostruttive-demolitive” di Lebbeus Woods e di Guy Lafranchi. Un caso interessante, anche per quel che riguarda l’interazione di aspetti estetici ed etico-sociali, è fornito dalle ricerche creative di Rural Studio, nate sotto la supervisione dell’architetto Samuel Mockbee. Operando in contesti poveri e problematici dell’Alabama, le loro costruzioni tentano di recuperare un rapporto vitale con l’intorno impiegando in modo libero elementi di scarto come cartoni, targhe automobilistiche, vecchi copertoni e ogni altro materiale utilizzabile. Da indicatori di desolazione e povertà, questi oggetti divengono l’emblema di una possibile rivincita sociale che passa per una riappropriazione creativa del territorio.

L’inclusione dello scarto come elemento estetico nelle opere degli architetti presuppone in generale un interesse per gli aspetti naturali del processo ideativo e costruttivo. Implica un certo grado di comunicazione empatica tra la natura esterna del mondo e quella interna, istintiva, del progettista. Suggerisce un agire ed un farsi agire sul piano di una estroversione del rimosso e dell’inconscio. Non induce a minimizzare l’incidenza della materia ma a comprenderne le potenzialità, a realizzare un piano creativo che non fermi l’imprevisto ma che lo convochi e coltivi.

 

 

 

NOTE

[1] Lea Vergine, Quando i rifiuti diventano arte. TRASH rubbish mongo, Ginevra-Milano, Skira, 2006, p. 12.

[2] Jacques Derrida, Economimesis. Politiche del bello, Milano, Jaca Book, 2005, p. 72.

[3] Il «senso comune vede nei rifiuti una sorta di escremento del corpo sociale» (Guido Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 16).

[4] Félix Duque, La fresca rovina della terra. Dell’arte e i suoi rifiuti, Napoli, Bibliopolis, 2007, p. 168.

[5] Günther Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 199.

[6] Georges Bataille, Il limite dell’utile, Milano, Adelphi, 2000, p. 26.

[7] Dell’assemblaggio, modalità creativa fondamentale nell’arte del riciclaggio, Edward Lucie-Smith afferma essere un metodo che «di per se stesso, tende a precludere l’idea di uno stile» (Edward Lucie-Smith, Arte oggi. Dall’espressionismo astratto all’iperrealismo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1976, p. 147).

[8] Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1987, p. 40.

[9] Félix Guattari, Le tre ecologie, Torino-Milano, Sonda, 1991, p. 32.

[10] Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 90.

[11] Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 2004, p. 158.

[12] AA.VV., Arti e Architettura 1900/1968. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi, Ginevra-Milano, Skira, 2004, p. 254.

(pubblicato in Dadaismo in Olanda, in “Merz” n.1, gennaio 1923)

[13] «Perhaps the most difficult aspect of Schwitters’ approach to his art was the fact that the work was both developmental and incorporative. He did not operate according to a fixed stratagem» (Elizabeth Burns Gamard, Kurt Schwitters’ Merzbau: The Cathedral of Erotic Misery, New York, Princeton Architectural Press, 2000, p. 4).

[14] Lucien Kroll, Ecologie urbane, Milano, Franco Angeli, 2001, p. 64.

[15] «De-architecture is a way of dissecting, shattering, dissolving, inverting, and transforming certain fixed prejudices about buildings, in the interests of discovering revelations among the fragments» (James Wines, De-architecture, New York, Rizzoli, 1987, p. 133).

[16] Aaron Betsky, Violated perfection, New York, Rizzoli, 1990, p. 49.

 




«Noi cerchiamo dappertutto l’assoluto e troviamo sempre soltanto cose»

(Novalis, Frammenti)
    Filippo
    Moretti 
    2009