Eccedenza ed eccitazione del segno di chi segna e si segna, di chi segna perché è segnato, il segno aggredente è un anelito inappagato che indica traiettorie del partire, linee di fuga. Il segnato fattosi oggetto tra oggetti, rilancia continuamente la morte tramite un segno aggredente, tenta di colmare la distanza tra l’Io e la materialità del mondo, verso una indistinzione Io-Altro. In questa modalità lo spazio architettonico sembra per lui farsi, con le parole di Guattari, operatore concreto «del metabolismo tra gli oggetti del fuori e le intensità del dentro»[1]. Il segnato è in una massima libertà e in una massima individuazione, è agente e mortale, mortale perché agente, un essere della temporalità senza storia. Il suo domandare disperatamente una pienezza fisica lo predispone al segno non conformante, ad una liberazione di energie infantili e aggressive come nel gioco, quasi istintive e violente forze animali a ‘segnare il territorio’.
L’avanguardia artistica del novecento segna per colpi di rasoio, in essa il segno si fa spesso ferita. In particolare la linea espressionista, indagando la dimensione istintiva del fare, prepara ad una architettura dell’azione-segno. Il segno radicale sembra passare per un piano che porta dall’espressionismo alla pittura di azione, secondo uno sviluppo che va dal segno espressione piena degli istinti dell’Io all’azione segnica sull’Io, incrinante la stessa individualità agente. Il soggetto ricerca prima una sua libertà contro le strutture conformanti poi, in modo più compiuto, contro l’idea stessa di uomo normato, colui che, come afferma Derrida nel suo libro su Artaud, ha «barattato una forza per una forma»[2].Da un segno-espressione-identità, sfiducia nell’umano ma attenzione a società ‘altre’, come quelle primitive, ad un segno-azione-disidentità, di critica totale. Il gruppo espressionista Brücke ha in Ernst Ludwig Kirchner, studente di architettura a Dresda assieme agli altri tre artisti fondatori (Fritz Bleyl, Erich Heckel e Karl Schmidt-Rottluff), forse il più significativo primo rappresentante di un segno aggredente, la cui profonda influenza è avvertibile sino a Georg Baselitz e oltre. L’Espressionismo astratto (Action Painting) sviluppa il segno su un versante onirico e selvaggio, particolarmente enfatizzato nelle opere di Willem de Kooning e di Franz Kline. Artisti vicini o appartenenti all’Azionismo viennese, in particolare Arnulf Rainer e Günter Brus, sperimentano azioni sulla propria immagine e sul proprio corpo. Il valore segnico si fa via via sempre più letteralmente un ‘tagliare’, un ‘secare’.
Etimologicamente l’insetto (da insectum) è la creatura secata, dal corpo diviso in parti, essa stessa è espressione fisica del segno, è attraversata dal segno. Diviene insetto il rifiutato dalla società che kafkianamente ha vissuto sulla propria pelle la violenza del subire ordini. Se, come afferma Canetti, la «sentenza di morte e la sua terribile spietatezza traspaiono attraverso ogni ordine»[3], dallo spazio ordinario e ‘ordinato’ trasuda, per chi ha la sfortuna o fortuna di sentirlo, un senso costante di pericolo. La volontà di ribaltamento di questa violenza passiva si esplicita in una violenza segnica attiva. Se nel rispetto delle tradizioni e delle abitudini, come afferma lo psicologo Friedrich Hacker, l’«aggressività scompare e si nasconde nelle istituzioni esteriori che l’assorbono»[4] ora, libera da condizionamenti, questa aggressività ridiviene proprietà disponibile del soggetto. Il segno aggredente è così segnale di un desiderio di ripristino di una presenza immanente, forse impossibile, che passa attraverso il rifiuto di una certa idea di umano, che fa dell’umano un rifiuto e dei suoi rifiuti, realmente presenti o immaginati per l’avvenire, prelevati dal reale o progettati, gli elementi significativi del suo operare per un ri-allestimento del mondo. Il rifiuto si addice al segno, svela una materialità in divenire assopita nelle strutture socio-spaziali conformanti, consentendo il riemergere di segni fluidi che rimettono in circolo la realtà tramite una creatività non dogmatica ma relazionale. Il rifiuto subito è qui molto vicino al rifiuto creato, entrambi sembrano porre una incrinatura nella consequenzialità storica, di nuovo la materia, virulenta e segnica, ha la meglio sulla forma. Il rimosso istintivo individuale, segno aggredente, trova il rimosso istintivo sociale, rifiuto dimenticato, nel campo di un’esperienza rinnovata. Gli elementi eterogenei di scarto inducono una creatività architettonica fisica e selvaggia, la loro fisicità disturbante riattiva un fare architettonico gestuale propenso alla collera creativa, con essa il fare rinasce (d’altronde è nella collera, come sottolinea Bachelard, che « ci si sente nuovi, rinnovati, chiamati a una nuova vita»[5]). Anche laddove non utilizzino rifiuti le architetture del segno aggressivo trattano i propri elementi come rifiuti, li gettano nello spazio come un segnale della loro irriducibilità ad un senso univoco, facendone moniti di presenza materiale. In questo sentire sono leggibili le opere di Gordon Matta-Clark nelle quali l’individualità artistica opera per l’alterazione delle stereotipie spaziali. Tadashi Kawamata usa legni e altri oggetti deperibili ponendoli in opera con modalità caotiche e informi a suggerire un ambiente instabile, fluttuante. Antesignani di tali orientamenti possono essere in un certo senso i disegni di guerra di Graham Sutherland nei quali la città viene colta nel momento in cui non è più tale, nel momento in cui ritrova una sua energetica caoticità. Il luogo segnato da catastrofi (terremoti, guerre...) è il luogo della dinamica vivente dei segni, precisamente il luogo-inconscio, il luogo-rimosso delle società conservatrici che pretendono di essere equilibrate e controllate. Questo loro desiderio isterico è alimentato dall’idea che sia possibile, tramite una presunta continuità ideologica con il passato, preservarsi da fratture e discontinuità[6]. In realtà sembrano darsi solo differenti modalità dell’essere separati: lo storicismo conservatore offre un’illusione di continuità ma mette in opera una profonda distanza dall’ideale proposto, il segno de-storicizzante non nasconde la separazione dal passato ma attiva un’aderenza violentemente agente che tenta di presentificare la realtà circostante. Nel segno aggredente si prende parte al divenire, si è in mutazione con la stessa opera che si realizza, si è dentro il processo di mutamento del reale, non di fronte ad esso, non si tende tanto ad una ‘rappresentazione’ del potere in grado di modificare l’esistente, quanto ad una ‘partecipazione’ al potere agente l’esistente. Nella traccia storica la materia è sempre manchevole, dovendo colmare una distanza irrecuperabile da una matrice ideologico-formale originaria. Classicità e rovina formano un binomio operante come vera e propria scuola di normalizzazione confortante[7]. Se la traccia storica si rimanda e rimanda ad altro da sé, letteralmente ‘si rovina’ e ‘rovina’, il segno aggredente chiede solamente di funzionare, ma di funzionare in modo radicale, rimettendo il passato e il futuro alla funzione del presente, di un presente che funzioni come immanenza totale e selvaggia.
Le deformazioni espressivo-decompositive del linguaggio architettonico, operando dentro il sistema per incrinarlo, aprono allo slancio aggressivo, stimolano il nascere del processo di inversione dallo stato ansiogeno dell’architettura a quello aggredente le strutture disciplinari. In parte siamo di fronte ad una problematica violenza gratuita del fare, tuttavia sembra doveroso riflettere anche sulle forme di violenze omeopatiche presenti nelle strutture architettoniche in quanto tali. Nel saggio La violenza dell’architettura Tschumi ci ricorda che tutte «le relazioni che intercorrono tra una costruzione e chi se ne serve sono improntate alla violenza, poiché l’uso implica l’intrusione di un corpo umano in un dato spazio, l’intrusione di un ordine all’interno di un altro»[8]. Con la sua avversione per l’abitare in cubi, il desiderio di forme insolite, antri e organi disseminati nello spazio, l’architetto espressionista Hermann Finsterlin da l’avvio a tutta una serie di architetture disturbanti, angosciose, dis-adattate, operanti in una dis-misura segnica. Günther Domenig raccoglie l’eredità dell’architettura espressionista facendo delle sue opere un segno nel paesaggio come incremento delle energie presenti nell’intorno. Le architetture dei Coop Himmelb(l)au riflettono la vitalità, la complessità e le tensioni della città moderna, significativamente vi è presente la metafora dell’insetto che si posa in modo incerto sulle superfici per riattivarle. La loro propensione dissacratoria in parte prosegue con i viennesi the next ENTERprise e Wolfgang Tschapeller. Lebbeus Woods e Guy Lafranchi nelle loro opere presentano un nuovo spazio turbolento e apocalittico composto da elementi eterogenei che, giocando prepotentemente con le materie, pur nel loro apparente stato di rovina moderna, in realtà escludono la consequenzialità stratificata e rendono di nuovo disponibile l’esistente fisico, sequestrato solitamente dal senso. In California una forte creatività architettonica gestuale è presente nelle opere di Tarek Naga e Michele Saee. L’australiano Richard Goodwin, architetto e scultore, contamina le sue architetture di elementi segnici articolati e informi delineando una architettura ‘parassita’. Pur esistendo casi italiani di architettura del segno radicale, basti pensare alle opere di Marcello Guido o a quelle di Franco Pedacchia, tuttavia, per un clima culturale generale proteso alla difesa dello status quo, questa tendenza viene resa minoritaria, se non rimossa.
Vi sono due modi del segnare aggressivamente il territorio, uno economico-speculativo ed uno artistico, entrambi in certo modo ‘sfigurano’ il territorio-paesaggio, ma con modalità e fini molto differenti. Nel primo vi è una sistematicità burocratica opacizzante, nel secondo un’aggressività volontaria. Lì una struttura di segni che occupano apparentemente in modo temporaneo il territorio, qui un’azione libera e liberalizzante di segni che lo trasfigurano. Due modi di darsi la violenza sull’intorno, l’uno simile all’abrasione, che irrita modestamente preservando l’identità, l’altro alla ferita, che lascia un segno profondo, preparando ad una totalità nuova. L’architettura dell’aggressività naturale, di un segno partecipante, si oppone ad un’architettura della violenza artificiale, di tracce che vengono subite, sviluppa una azione-potenza come energia del fare in contrasto con una pre-potenza (quasi onnipotente) del non lasciare fare. Contestando una poetica dello spazio ‘vuoto’, il segno aggredente occupa lo spazio architettonico con oggetti della crudeltà, delinea una erotica dello spazio ‘pieno’ di possibilità materiche inattese, desiderate forse da coloro che possono accettare e fare proprie le dure parole di Caraco contenute nel suo Breviario del caos: «Che cosa può capitarci di peggio, ormai, che restare quali siamo?»[9].
NOTE
[1] Félix Guattari, Cartografia schizoanalitica. L’enunciazione architettonica in AA.VV. Architettura della sparizione, architettura totale. Spaesamenti metropolitani, Milano, Mimesis, 2005, p. 29.
[2] Jacques Derrida, Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, Milano, Abscondita, 2005, p. 47.
[3] Elias Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 2001, p. 366.
[4] Friedrich Hacker, Aggressività e violenza nel mondo moderno, Milano, Il Formichiere, 1977, p. 67.
[5] Gaston Bachelard, La terra e le forze. Le immagini della volontà, Como, Red, 1989, p. 74.
[6] Come afferma De Landa «anche se il mondo è in sé nonlineare e lontano dall’equilibrio, la sua omogeneizzazione ha fatto sì che le aree rese uniformi cominciassero a comportarsi oggettivamente come strutture lineari in equilibrio, con proprietà predicibili e controllabili» (Manuel De Landa, Mille anni di storia nonlineare. Rocce, germi e parole, Torino, Instar Libri, 2003, p. 308).
[7] Dalla prospettiva di chi segna violentemente, afferma lapidario Willem de Kooning: «Ho sempre avuto l’impressione che i greci si nascondessero dietro le loro colonne» (Willem de Kooning, Una visione disperata in Appunti sull’arte, Milano, Abscondita, 2003, p. 12).
[8] Bernard Tschumi, La violenza dell’architettura in Architettura e disgiunzione, Bologna, Pendragon, 2005, p. 98.
Sul rapporto violenza-istituzioni Wigley afferma: «There is no violence without institution, no institution without space, no space without violence» (Mark Wigley, The Architecture of Deconstruction: Derrida’s Haunt, Cambridge, MIT Press, 1995, p. 120).
[9] Albert Caraco, Breviario del caos, Milano, Adelphi, 1998, p. 98.