Nel segno dello svago reazionario o del piacere rivoluzionario si danno due modi dell’oziare. L’ozio-svago persiste nell’abitudinario, l’ozio-piacere induce una rimozione dell’abitudinario. Il primo è concesso e promosso dal sistema dominante, il secondo denigrato se non combattuto apertamente. I luoghi dell’ozio-svago sono luoghi civici e tradizionali. I luoghi dell’ozio-piacere consumano il senso dei luoghi tradizionali. I primi sono luoghi confortanti ed infantili della memoria, di un ritorno ad un’infanzia spensierata, storicizzata, un’infanzia contemplata a distanza e in rappresentazione, mondi fatati senza sostanza. I secondi sono luoghi di un originario in atto, affondano a piene mani nello stato primitivo dell’infanzia, se ne fanno carico, ritrovandone la propensione spaesante. All’ozio che indugia nella memoria sociale – l’infanzia individuale idealizzata è in certa misura una memoria sociale, di un sociale che passa per l’individuo e lo socializza – si può contrapporre un ozio radicale associato all’oblio sociale. Questa evoluzione obliante dell’ozio è un’esperienza oltre la narrazione, fuori dal ricordo, verso un avvicinamento alla natura. La natura è sotto il segno di una presenza innocente in divenire, di un oblio perpetuo. Il ricordo è propriamente, con le parole di Jean-Marie Guyau, «questa cosa sconosciuta in tutta la natura»[1]. Per mezzo dell’oblio si ha una trasfigurazione del reale, a detrimento di un reale sociale, in favore di un reale naturale. Nell’oblio i luoghi perdono il “loro” nome – che l’abitudine gli ha dato – per riattivarsi in una dimensione di sensualità indistinta. Questa sorta di nuovi paradisi sono l’orizzonte di una condizione umana che voglia, prendendo a prestito le parole di Ernst Jünger dal suo Trattato del Ribelle, tentare di raggiungere il «supremo traguardo: unire la libertà e il mondo in una nuova armonia»[2]. Nell’oblio pieno non si danno più significati ma solo sensazioni, luoghi di piaceri compiuti, di godimenti pieni del reale. A questi luoghi edenici di libertà ed armonia spontaneamente si associano immagini archetipiche che necessitano di essere assimilate ed espresse ma anche, forse, re-interpretate e ri-elaborate.
Prendiamo, ad esempio, il racconto di Lorenzo Giacomini Prima dell’Eden (presente in questo numero di Graphie), vera e propria summa di luoghi archetipici. Vi è un movimento in lontananza ed in profondità: in una distanza assoluta, fuori dal mondo, un luogo altro ed in esso un uomo altro, il cui linguaggio è trasfigurato, simile ad una lingua-arte primitiva. La chiaroveggenza e la risonanza con una realtà antropico-naturale esprimono una “età aurea”. In una selva dinamica per cornice un luogo di delizie, di giardini, sorta di “albero della vita” che si propaga da una piramide eterna. Questo luogo originario e sensuale può ricordare in parte le visioni a carattere goethiano di Wenzel Hablik, ipotesi artistiche di mondi nuovi cosmici mossi da forze natural-antropiche, e di Engelbert Kremser, composizioni di terre che ammiccano all’ozio infantile dei castelli di sabbia. Significativamente troviamo nel racconto la polarità del senso del luogo racchiuso: grotte, archetipi del riposo, e labirinti, archetipi del movimento. La descrizione del luogo non soverchia l’estrema precarietà ed indefinibilità dello stesso, ne consegue che le caratteristiche archetipico-formali sopra enunciate non si danno con una evidenza assoluta, ma rimangono perlopiù intuite, come in sogno. Questo aspetto misterico pare non essere solo una caratteristica necessaria al tono fantastico del racconto, quanto indicativo di un elemento essenziale per il valore del luogo proposto. Alcuni episodi sottolineano che il sentimento di questo luogo primario non può essere rappresentato ma solo vissuto. Estendendo la questione, ci si può chiedere: qual è una legittima concretizzazione del potere evocativo archetipico? Come si può distinguere un’architettura creativa da un’architettura retorica, che ha sempre per corollario una fissazione sulle rigidità geometriche e, soprattutto, simmetriche? (per questo aspetto bastino le lapidarie parole di Emil Cioran: «Quando non provate più quella gioia che nutre il Divenire, tutto sfocia in simmetrie»[3]). Le immagini e le forme archetipiche sembrano mantenere il loro valore naturale solo se non vengono interpretate in senso letterale, se il loro aspetto fondativo non risulta esplicitamente oggettivato ma soggettivamente vissuto. Nel racconto si parla di una idilliaca comunità-vaso – che richiama opere architettonico-ambientali come l’Arcosanti di Paolo Soleri o l‘Auroville di Roger Anger – radicata nell’impulso alla pienezza armonica vissuta dagli individui. Questo sentire sembra essere prerogativa non tanto di una struttura sociale comunitaria, quanto di un vero e proprio “ambiente-sociale” comunitario, capace di esprimere la naturalità dell’esistenza. Ci si può chiedere dove nell’immediato si senta scorrere la valenza di questo ambiente sociale. Gilbert Simondon afferma: «La socialità esige presenza, ma una presenza rovesciata. [...] Nei confronti dell’individuo, il sociale si presenta quindi come una realtà assai differente dall’ambiente; è solo in una accezione larga, e in modo assai impreciso, che si può parlare di ambiente sociale. [...] L’ambiente sociale esiste come tale solo nella misura in cui non è colto come sociale reciproco; ma questa è solo la situazione del bambino o del malato, non certo quella dell’adulto integrato»[4]. Si delinea in tal senso un possibile parallelismo analogico fra un immaginario sociale-oggettivo-utopico ed un agire individuale-soggettivo-concreto. Entrambi attingono alle fonti di una presenza piena, l’uno secondo un anelito visionario, l’altro per mezzo di una solitudine dell’essere che si fa carico di un senso comunitario irraggiungibile e lo pone in forme creative. Il primo, teorico, immagina il valore edenico, il secondo, artistico, lo realizza parzialmente secondo la via dell’infanzia folle, quale immersione amniotica nella natura.
L’infanzia creativa è già immanente appagamento astorico, è il tema nascosto dell’utopia della pienezza paradisiaca, unione prima della frattura fra conscio ed inconscio. Come ricorda Norman Oliver Brown, se «studiassimo seriamente la possibilità di una coscienza che invece di essere soggetta alla rimozione fosse consapevole di ciò che ora è inconscio, una tale coscienza per definizione non sarebbe nel tempo ma nell’eternità. E infatti assomiglia all’eternità il tempo in cui vive l’infanzia»[5]. La perdita dello stupore e dell’incanto è caduta dall’oblio, rottura della pienezza. Chi può sostenere l’impalcatura del valore ormai perduto? Occorre tutto lo sforzo possibile – elemento presente nella Favola di Goethe – sforzo molto specifico e direzionato: lo sforzo artistico. Esso compete in sommo grado ad una coscienza singolare, ed in particolare ad una coscienza singolare-artistica. L’arte possiede germi virali per l’identità dei luoghi, è in grado di destabilizzarli profondamente e di indicarne direzioni impreviste, di grande arcaismo o avanguardia, o entrambe le cose insieme, comunque non in linea con le direttive civiche e con le aspettative sociali. Solo l’artista può incrinare e soprattutto incrinarsi in questo modo. Ne fa un abitudinario dell’ozio e dell’oblio quella «scissione della consapevolezza che permette all’artista di vivere in due mondi»[6]. L’artista vive questa scissione, l’architetto, quando la vive, e proprio perché la vive, è un’artista (o un architetto-artista). La coscienza artistica radicale si fa carico della frattura del sociale, si dirige verso una promessa di nuova pienezza con la creazione di luoghi eccedenti, circoscritti in termini spaziali ma vasti in termini di intensità del sentire. Se i luoghi civili nella loro interezza ed integrità non sono alla sua portata, l’alterità edenica ha trovato e può trovare qualche margine di operatività nei micro-luoghi delle cosiddette sculture-architetture. In Francia è stato sviluppato e dibattuto in modo fertile questo tipo di espressione, grazie anche al ruolo di ponte culturale tra scultura ed architettura svolto dalla figura di André Bloc (fondatore nel 1930 e direttore per lungo tempo della rivista L'Architecture d'aujourd'hui) e dalle sue sculptures habitacles, sintesi creativa di architettura e scultura degli anni sessanta. Su due espressioni di sviluppo coevo di artisti francesi la polarità del senso del luogo naturale racchiuso, poco sopra suggerita, si fa radicale. Le grotte del riposo ed i labirinti del movimento trovano significativi esempi artistico-spaziali nel ciclo delle Demeures di Étienne-Martin e nel ciclo dell’Hourloupe di Jean Dubuffet. Le grotte del riposo rimandano principalmente ai piaceri dell’ozio ed i labirinti del movimento ai piaceri dell’oblio. Se per le Demeures si può parlare di luoghi della memoria è in realtà di una memoria del tutto particolare, soggettiva ed arcaica, autobiografica-mitologica centrata sul soggetto, nella quale il vissuto personale, per mezzo di un oblio civile, confonde il mondo naturale e quello artificiale. In questo senso non è irrilevante che l’intero ciclo sia in gestazione, preceduto, anticipato dall’opera Hommage à Lovecraft che, fosse anche solo per il titolo, rimanda ad una dimensione di oblio inquietante. Nelle sedimentazioni antropico-tettoniche di questi luoghi traspare una ambivalenza archeologica-geologica, una simbologia ambigua che catalizza e metabolizza le immagini della terra con le figure dell’umano. Nelle dimore è forte il desiderio di un radicamento terreno, traspare un senso di raccoglimento e protezione. Le superfici sono crogiuoli di anfratti ed insenature cavernose che invitano lo sguardo a percorrere sensualmente i meandri della materia. Tutto induce ad un concentrarsi sulle valenze di un materialismo tattile sedentario non disgiunto da un sentire ritmico e pulsante. Si può notare che in quanto “opere viventi”, a volte persino antropomorfiche, queste dimore esprimono un principio di simmetria elementare, sottostante e non purificato, non dogmatico, simile a quello che si intravede in alcune realtà naturali o che può presentarsi nelle architetture primitive, che non mette ancora in ombra e raggela la dinamicità del sentire. Il primitivismo moderno di queste creazioni rimette in gioco e tenta di avvicinare il senso del dimorare nell’umano e del dimorare nella natura. Se nell’arte di Étienne-Martin si presenta un complesso equilibrio tra il naturale e l’antropico, nell’arte di Jean Dubuffet l’umano abbandona i propri ormeggi ed aspira ad una innocenza naturale. Nelle creazioni spaziali del ciclo dell’Hourloupe – che trovano pieno compimento nel reale con la Closerie Falbala – si è condotti verso oblii labirintici quasi assoluti. Smarrimenti del pensiero, contro se stesso, operano un de-condizionamento del creare artistico per un recupero di una realtà senza nome. Attaccano frontalmente le immobili nozioni semplicistiche dell’istituzionalizzazione culturale del fare luoghi, tentando di recuperare un infantile stato creativo, impedito nel suo sviluppo dal senso univoco imposto dai valori tradizionali. Come Dubuffet stesso afferma: «Non è per la sua insistenza nel riproporre opere del passato che la cultura è così nociva. Questa non è che una delle sue funzioni, e costituisce per lo più un cerimoniale preliminare: l’anestesia prima dell’operazione. La sua azione più nefasta consiste nell’apporto di un vocabolario. La cultura propone – se non impone – parole di sua produzione che sono portatrici di concetti prefabbricati, e che col tempo si insinuano nelle menti e le condizionano, diventando delle specie di semafori»[7]. L’Hourloupe è una sfida all’interpretazione normalizzante il reale e alla tecnicizzazione normalizzante del reale. La sua tattica è l’occupazione della realtà per mezzo di una estensione tridimensionalmente esplosiva della visione artistica. L’azione dell’opera d’arte è per Dubuffet un: «Trascinare con forza lo spirito fuori dei solchi in cui abitualmente cammina, trasportarlo in un mondo dove cessano di funzionare i meccanismi delle abitudini, dove i veli delle abitudini si squarciano, così che tutto appare carico di significati nuovi, pullulante di echi, di risonanze, di suoni armonici»[8]. L’Hourloupe, labirinto mentale d’invenzione infinitamente estendibile, libera i luoghi dai codici di lettura canonici per aprirli ad una dimensione di gioia caotica.
Nelle sculture-architetture la difficile congiuntura dell’arte e della vita non è più limitata al solo piano del vivere intimistico dell’artista. Non è solo l’artista che trova un vissuto più intenso nel campo artistico, quanto il campo artistico che invade il reale per ripensarlo ed accogliere l’artista in un luogo trasfigurato creativamente che, data l’insistenza su una frattura della omogeneità del reale, come ogni luogo dell’alterità è per sua natura problematico. Questo aspetto non è tuttavia quello che solitamente preoccupa i detrattori di tale forma d’arte. Si teme che l’influenza formale di queste opere legittimi un’architettura a carattere unicamente scultoreo. Quando si impediscono categoricamente le suggestioni scultoree per l’architettura lo si fa solitamente in nome di una lotta, giusta, alla spettacolarizzazione dell’architettura ma si tende a dimenticare che esistono anche spettacoli piatti, tradizionali e totalitari, solo più monotoni e subdoli. Non è un’elevata creatività scultorea che spettacolarizza, ma una mancanza di presenza e pienezza congiunta ad una tirannide dell’immaginario. E non è certo solo sul piano della creatività che si giudica la spettacolarizzazione. Quando la scultura-architettura viene ritenuta unicamente spettacolare ed oziosa non si considera che è primariamente dall’ambito artistico che può nascere un senso nuovo di spazialità architettonica. Se i più si accontentano dei luoghi dati e tradizionali, per altri, pochi, l’appetito è talvolta stimolato da artisti disposti a ricercare nell’arte la sua «capacità di infrangere il monopolio della realtà costituita [...] e di definire ciò che è reale»[9]. La mortificazione dell’immaginario, facendo dell’ozio e dell’oblio unicamente intrattenimenti sterili, recide il cordone ombelicale che unisce alla fonte creativa naturale ed inesauribile. Estromettendo un sentire scultoreo-spaziale, propedeutico al fare architettonico, impedisce di fatto ai luoghi di essere altro da ciò che sono, li espropria del loro potere di alterità e prepara la dittatura del reale.
NOTE
[1] Jean-Marie Guyau, Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione, Reggio Emilia, Diabasis, 2009, p. 60.
[2] Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Milano, Adelphi, 2001, p. 44.
[3] Emil Cioran, Lacrime e santi, Milano, Adelphi, 1990, p. 78.
[4] Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 172.
[5] Norman Oliver Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Milano, Adelphi, 2002, p. 128.
[6] Edgar Wind, Arte e anarchia, Milano, Adelphi, 1997, p. 47.
[7] Jean Dubuffet, Asfissiante cultura, Milano, Abscondita, 2006, p. 44.
[8] Jean Dubuffet, I valori selvaggi. Prospectus e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 62.
[9] Herbert Marcuse, La dimensione estetica, Milano, Arnoldo Mondadori, 1979, p. 25.