Il linguaggio distingue l’uomo dall’animale e fonda la distanza tra produzione umano-artificiale e animale-naturale. Le opere spaziali dell’uomo, sebbene prive di una lingua vera e propria, non sono collocabili acriticamente in seno alla natura. Discriminanti linguistico-interpretative ne producono un allontanamento sempre ri-attualizzato. Seguendo Jacques Derrida: «possiamo sempre riferirci all’esperienza che noi, in quanto esseri parlanti [...] facciamo di queste opere silenziose, poiché possiamo sempre riceverle, leggerle, o interpretarle come discorsi potenziali [...] queste opere silenziose sono in effetti già prolisse, piene di discorsi virtuali, e da questo punto di vista l’opera silenziosa diventa un discorso ancora più autoritario»[1]. Occorre dubitare dell’autorità di un discorso retorico architettonico, anche dove si propone come rispettoso della natura. Una possibile naturalità dell’architettura è compromessa dalla volontà di dominio sulla natura da parte dell’uomo. L’uomo è l’essere che si distanzia dalla natura e dalla propria natura, ma è anche l’essere capace di interrogarsi sul grado di tale distanziamento. La radicalità del sentire naturale non affiora sino a quando non si riflette sul vincolo preventivo posto da ogni codice interpretativo pseudo-linguistico all’istinto operativo naturale. Una volontà creatrice architettonica naturalizzante prova a discostarsi dalla retorica delle proposte architettoniche civilmente predisposte. Queste sono risposte inevitabilmente parziali e nevrotiche. Si appellano al linguaggio e ne condividono l’essenza. Come il linguaggio anch’esse sorgono da un compromesso fra gli impulsi naturali individuali e le possibilità artificiali e comunicative di gruppo. Pur giocando un ruolo importante nell’individuo, la lingua e il linguaggio nei gruppi sono la norma, divengono normativi, stringenti. Come afferma Benjamin Lee Whorf: «La struttura della lingua è l’elemento che limita la libera plasticità e irrigidisce i canali di sviluppo nella maniera più autocratica»[2]. Nella lingua le differenze dell’esistente si appiattiscono in similitudini comunicabili, vincoli preventivi che limitano sostanzialmente le ideazioni architettonico-progettuali. Gradualmente e in modo inesorabile le proposte spaziali più accettabili tendono ad allinearsi a quelle facilmente comunicabili. Ci ricorda Edward Sapir che: «Per poter essere comunicata, l’esperienza singola deve essere riferita a una classe che sia implicitamente accettata dalla comunità dei parlanti come un’entità unitaria»[3]. Riducendo la possibilità di presentazione, ovvero ponendo dei vincoli a ciò che può essere reso presente - persino alla coscienza individuale - i legami sociali, con il mezzo privilegiato del linguaggio, inducono alla rappresentazione. Anche dove spettacolare, la rappresentazione ripete pedissequamente il reale, non ha né la forza né il desiderio di porlo in questione. La naturale proliferazione creativa viene limitata demonizzando e privando di senso una possibile costante lotta con l’immaginario imposto. Se non bisogna eccedere nell’idea di una condizione umana naturalmente protesa verso uno sregolato creativo e, quantomeno, pare giusto accostarle un altrettanto legittimo desiderio di equilibrio, tuttavia è assai difficile dimostrare che esso sarebbe “per natura” immancabilmente quello suggerito dal sistema sociale. Come ricorda Gilles Deleuze: «Non ci sono tendenze sociali, ma soltanto dei mezzi sociali per soddisfare le tendenze»[4]. Vi possono essere avvicinamenti alla natura delle tendenze umane nelle risposte sociali, così come risposte architettoniche che assecondano i desideri degli individui, ma non si può da ciò dedurre che le tendenze siano risolte nelle risposte fornite. Le architetture compiute non risolvono definitivamente le tendenze. Illusioni di esaustività ed inevitabilità del costruito limitano una possibile naturale e mutevole percezione dei luoghi. Sebbene nel sistema architettonico ed urbano un mutamento dinamico sia sempre riconoscibile, raramente si accetta la radicalità del divenire naturale. Questo viene simulato/sostituito dal divenire storico. Esso è oltremodo discorsivo, eloquente e condizionante. La canalizzazione storica dell’immaginario tollera malvolentieri le devianze creative. Strati di accettazione passiva di immaginari imposti orientano le scelte. Manifestazioni architettoniche prevedibili non possono che condurre alla creazione di luoghi mediocri, luoghi unicamente condivisibili. Tale condivisione esige nomi, tipi e codici per identificare gli eventi spaziali ed architettonici. Costantemente ripetuti a livello sociale, essi inducono nell’individuo attese spaziali quasi immodificabili. È la condivisione di medesimi codici discorsivi che porta ad allineamenti conformanti e disciplinati. Come sottolinea Michel Foucault, la disciplina «è un principio di controllo della produzione del discorso»[5]. Se l’opera antropico-architettonica intende avvicinarsi alla natura, deve rendere conto delle pulsioni indisciplinate del costruire, pulsioni che sono socio-mediate, stabilizzate nel sistema discorsivo comune. Se non si presta ad un’ingenua resa ai capricci più superficiali e manipolabili dell’uomo, l’architettura indisciplinata può ridurre la tendenza al dominio degli impulsi biologici. L’affiorare di un fondo naturale creativo biologico-pulsionale è un sintomo del passaggio da una natura-materia esteriorizzata ad una natura-materia vivente, da un’imitazione della natura ad una possibile (impossibile?) “produzione di natura”. Così prossimi alla natura, l’umano e l’artificiale sono vicini tanto al proprio annullamento quanto al proprio compimento creativo. Seguendo le parole di Wilhelm Reich: «Tutto ciò che è veramente rivoluzionario, qualsiasi arte e scienza autentiche, nascono dal nucleo biologico naturale dell’uomo»[6]. La partecipazione al produrre naturale, sorta di esperienza affiorante dal non-linguistico, induce ad impulsi spaziali elementari, forse simili ai programmi motori messi in opera dagli animali nell’atto del costruire. Il valore qui non sorge da soddisfacenti risposte architettoniche a chiare esigenze funzionali. Esigenze e risposte vengono giocate da un anelito immanente. I luoghi, trasfigurati, si caricano di urgenze e scaturigini inventive potenziali, tanto naturali quanto immaginifiche.
NOTE
[1] Jacques Derrida, Le arti spaziali. Un’intervista con Jacques Derrida in Adesso l’architettura, Milano, Scheiwiller, 2008, p. 39.
[2] Benjamin Lee Whorf, La relazione del pensiero abituale e del comportamento col linguaggio in Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1977, p. 123.
[3] Edward Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Torino, Einaudi, 2007, p. 12.
[4] Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Torino, Einaudi, 2007, p. 18.
[5] Michel Foucault, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2007, p. 18.
[6] Wilhelm Reich, Prefazione alla terza edizione corretta e ampliata a Psicologia di massa del fascismo, Torino, Einaudi, 2009, p. XLVII.