DALLA PIEGA DI GILLES DELEUZE A UN NUOVO DIVENIRE URBANO

 

 

 

L’anti-Edipo del 1972 e Mille piani del 1980 di Gilles Deleuze e Félix Guattari sono libri che precedono e preparano il terreno al concetto di “piega” sviluppato dallo stesso Deleuze nel suo libro La piega. Leibniz e il Barocco, del 1988. Le riflessioni di Deleuze e Guattari, intimamente legate a quelle del Maggio francese, riflettono a fondo sulle questioni ancora lasciate aperte da quella stagione e le sviluppano in modi per molti aspetti inattesi. L’anti-Edipo è un frutto teorico del Sessantotto e ne condivide lo spirito: ansia di cambiamento, rottura delle convenzioni, desiderio di trasformazione radicale della vita e del mondo, messa in atto di pratiche sperimentali. Nel 1968, con il libro Differenza e ripetizione, Deleuze pone la questione della differenza in sé, oltre l’identità, oltre la rappresentazione, oltre ogni mediazione. Differenza non come negazione ma - seguendo Friedrich Nietzsche - come affermazione pura, come atto creativo. La differenza (anti-hegeliana) concepita da Deleuze è singolarità che resiste alle identità, soggettive e collettive. È differenza affermativa, affermazione come differenza.

Secondo Deleuze (e Guattari) la vita, per non essere depotenziata, deve resistere alle logiche della "macchina astratta di surcodificazione”, la cui funzione è quella di regolare e addomesticare la creatività nomade al fine di garantire la sopravvivenza dei codici considerati ammissibili. La vita deve resistere alle stratificazioni di senso del potere costituito, deve resistere al blocco significante dell'ordine stabilito, attraverso una analisi dei pre-giudizi, delle immagini-guida dogmatiche e delle forze di assoggettamento agenti in ogni aspetto del vissuto. L’intento è quello di potere agire differentemente in un mondo omologato e omologante, di criticare l’esistente, di affermare nuovi valori, di porre il desiderio contro la legge. Desiderio che non è mancanza, ma pienezza, che crea nuova realtà. Per Deleuze e Guattari «il desiderio è rivoluzionario. Ciò non significa che voglia la rivoluzione. È meglio di questo. È rivoluzionario per natura perché costruisce delle macchine capaci, inserendosi nel campo sociale, di far saltare qualcosa, di smuovere il tessuto sociale»[1]. La prospettiva proposta è dunque quella di una micro-politica dell’esistenza, sostenuta dal desiderio e dal divenire. Nel caso dell’urbanistica e dell’architettura (divenute in senso deleuziano minoritarie e rizomatiche) si va verso pratiche di micro-urbanistica e di micro-architettura che, superate le utopie di un cambiamento totale e generalizzato, siano capaci di creare e incentivare realtà alternative e sperimentali.

Non siamo più di fronte all’utopia di un cambiamento dell’intero sistema/struttura o, nel caso che a noi qui interessa, dell’intera città, dell’intero territorio, dell’intero paesaggio. È il concetto stesso di sistema unitario, di struttura unitaria, che viene minato alla base, indirizzando la “rivoluzione” verso una produzione incessante di pratiche - anche spaziali - sperimentali. È il passaggio compiuto da una prospettiva centrata sulla dialettica (Hegel/Marx) ad una prospettiva centrata sulla differenza (nietzscheanesimo di sinistra). Questa posizione è molto simile a quella di altri pensatori appartenenti, come lo stesso Deleuze, alla tendenza filosofica del post-strutturalismo. Viene abbandonata ogni forma di umanesimo, così come ogni analisi basata sulla dicotomia tra un’interiorità di un soggetto (esistenzialismo) e un’esteriorità di una struttura (strutturalismo). Al suo posto il post-strutturalismo propone un’analisi delle pratiche che “producono” sia il soggetto che le strutture. Tali pratiche, per svincolarsi sia da un presunto soggetto che da una presunta struttura, dovrebbero tendere alla sperimentazione, verso la produzione di una differenza costitutiva, non più legata ad una contrapposizione, poiché il potere coercitivo non viene più inteso qui come una forza agente dall’esterno, ma come un elemento presente in ogni relazione “normalizzata” (che vuole definire cosa è normale e la norma da seguire).

La posizione teorica di Michel Foucault - anch’essa post-strutturalista - è spesso approfondita e ripresa da Deleuze ed è utile per comprendere alcuni aspetti sviluppati nella  sua teoria della piega. Importante in questo senso è il libro di Foucault Sorvegliare e puniredel 1975. Le società moderne, per Foucault, sono società disciplinari, società con strumenti precisi di accelerazione capitalistica (spazio e tempo sono per la prima volta disgiunti, il tempo diviene una risorsa da mettere a profitto). Nel XIX secolo vi è la creazione di ospedali, scuole, prigioni, fabbriche, con l’intento di suddividere lo spazio, di evitare commistioni, di assegnare ad ogni funzione il suo posto. Per Foucault: «Lo spazio disciplinare tende a dividersi in altrettante particelle quanti sono i corpi o gli elementi da ripartire. […] Si tratta di stabilire le presenze e le assenze»[2]. È per questo che, come suggerisce sempre Foucault, «lo spazio delle discipline è sempre, in fondo, cellulare»[3]. Lo spazio viene standardizzato, regolamentato, disciplinato. Così: «Appare, attraverso le discipline, il potere della Norma»[4]. La piega, come intesa da Deleuze, è oltre il concetto della presenza e dell’assenza, non è “cellulare”, è indisciplinata, non è “normata”. È un meccanismo che si inserisce all’interno dei dispositivi disciplinari inducendoli ad un processo di novità radicale. L’architettura moderna, ancora “cartesiana”, segue un modello cellulare. La piega crea una commistione ribelle. Rimette in gioco, in senso anti-cartesiano, la questione della molteplicità, ora non più legata all’accostamento di celle spaziali separate. Deleuze è chiaro: «Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti, ma è anche ciò che risulta piegato in molti modi»[5]. Questo è un aspetto molto importante - anche in senso spaziale e architettonico - della sua teoria della piega, poiché pone la piega come il luogo della creazione del molteplice, un molteplice intensivo (la molteplicità è un viaggio da fermi, come la passeggiata schizo).

Un luogo “piegato” è portatore di molteplicità. Può essere un luogo di implosione ed esplosione al contempo dei codici disciplinari del contesto nel quale si inscrive, un luogo che inietta la differenza. Con la piega vi è anche un forte allontanamento rispetto al concetto di “trasparenza”, percettiva o concettuale, della modernità razionalista. Il piano razionale del modernismo è trasparente in quanto pre-vedibile. La piega al contrario induce ad un imprevisto (alla novità di un imprevisto). Come afferma Deleuze, nel suo libro sulla piega, l’incessante produzione di pieghe conduce verso la realizzazione del “nuovo”: «Il migliore dei mondi non è quello che riproduce l’eterno, ma il mondo in cui si produce il nuovo, il mondo che conserva un potenziale di novità, di creatività»[6]. Nell’ultimo intervento pubblico di Deleuze dal titolo Che cos’è un dispositivo? - proposto a un convegno su Foucault del 1988 (stesso anno del libro sulla piega) - Deleuze chiarisce cosa è per lui il nuovo e lo esprime in funzione del divenire: «Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro»[7].

Il pensiero proposto da Deleuze è un pensiero del divenire e della trasformazione. Una trasformazione non implicata nella realizzazione di una forma né nella perdita di tale forma. Una trasformazione che esclude l’idea di presenza o di assenza di una forma compiuta. Per questo motivo nel suo libro sulla piega Deleuze si sofferma spesso sull’arte informale. Per Deleuze: «Il Barocco è l’arte informale per eccellenza […] Ma l’informale non costituisce una semplice negazione della forma: esso attesta la forma come forma piegata ed esistente solo in quanto “paesaggio del mentale”»[8]. Nel libro sulla piega Deleuze parla di Jean Dubuffet, artista informale e teorizzatore dell’Art Brut. Dubuffet è interessato all’arte dei folli e allo “stato selvaggio”, in quanto espressioni di libertà dai condizionamenti della cultura. Nei suoi spazi plastici del ciclo dell'Hourloupe - come il Jardin d'hiver  del 1970 a Parigi, la Closerie Falbala del 1973 a Périgny e il Jardin démail del 1974 a Otterlo - sono già evidenti importanti elementi della piega presenti in molte architetture contemporanee. Dubuffet realizza una proliferazione di “paesaggio mentale” che reinventa la natura e crea una scultorea indistinzione suolo-parete e interno-esterno.

Per Deleuze nella piega, in un senso anche architettonico, l’esteriore diviene interiore e l’interiore esteriore. Con la piega l’interno non è più un vero e proprio interno, l’esterno non è più un vero e proprio esterno. Vi è un principio di fusione, di con-fusione. Viene messo in crisi il rapporto figura-sfondo e la distinzione tra orizzontale e verticale. La superficie diventa fondo e il fondo superficie. Vi è uno sprofondamento e una spinta verso l’alto, una commistione tra facciata e camera. Seguendo Deleuze: «La materia-facciata va verso il basso, mentre l’anima-camera sale verso l’alto»[9]. Natura e artificio nella piega si (con)fondono. L’architettura della piega coinvolge il suolo in un nuovo processo in divenire, in un divenire altro da sé, verso processi di fluttuazione, mutazione, contaminazione.

Nel panorama contemporaneo sono molte le architetture, anche a scala urbana, influenzate - più o meno consapevolmente - dalla teoria della piega di Deleuze. Ci concentreremo su tre casi, tre linee di ricerca che superano la fissità degli immaginari urbani e si pongono in dialogo con le dinamiche mutevoli delle evoluzioni biologiche, delle conformazioni geologiche e dei modelli matematico-geometrici. Sono esempi che frammentano l’unitarietà iconica della città, inducendola a partecipare in modo fluido alle dinamiche immanenti del reale, superando le visioni ideali, storiche, tipologiche. Il gruppo FOA (Foreign Office Architects) di Farshid Moussavi e Alejandro Zaera-Polo ha concentrato la sua ricerca sull’applicazione di principi conformativi in grado di realizzare opere architettoniche simil-biologiche, quasi partecipi del divenire evolutivo degli esseri viventi. Una delle opere che esprime al meglio questo proposito è il Yokohama International Passenger Terminal, completato nel 2002. Il gruppo Morphosis Architects di Thom Mayne ha lavorato spesso sull’idea di un’architettura espressiva e frammentaria che mima le morfologie e le conformazioni geologiche presenti in natura, riconfigurando violentemente il suolo in senso tecnologico e dinamico. Questi aspetti sono ben evidenti nel Giant Interactive Group Headquarters a Shanghai, completato nel 2010. Il gruppo UNStudio (United Network Studio) di Ben van Berkel e Caroline Bos ha operato costantemente seguendo l’idea di ibridazione e di un divenire - un divenire altro - utilizzando modelli matematici e geometrici capaci di esprimere al meglio i flussi e le mutazioni delle forme. L’Arnhem Central Masterplan, completato nel 2015, è un esempio perfettamente compiuto del loro peculiare modo di operare.

Il biomorfismo evolutivo del gruppo FOA fa riferimento alle forme viventi, che evolvono incessantemente. Il loro “divenire” si pone sulla linea di indistinzione uomo-natura. Le loro opere intendono superare, seguendo la scienza, la distinzione tra antropico e naturale. Intendono sintetizzare il processo generativo naturale e porlo in essere nell’architettura. Natura e artificio si fanno quasi indistinguibili, in quanto implicate in dinamiche evolutive simili. Tutta l’attenzione non è posta sul risultato formale finale ma sul processo di produzione interno al progetto stesso, sulla sua propria “vita”. Sono opere che si innestano nell’immanenza della materia naturale. L’effetto plastico non è studiato in se stesso, è strettamente determinato dall’organizzazione e dallo sviluppo interno dei materiali. Le loro opere propongono composizioni basate sulle ripetizioni e sulle variazioni/differenziazioni da tali ripetizioni. Come negli esseri viventi, la calibrazione di questo rapporto consente il mantenimento di una propria consistenza interna, senza irrigidirne le potenzialità di sviluppo (in questo caso inteso come sviluppo formale dell’opera stessa). Il loro operare è concentrato sul produrre una sperimentazione pragmatica, concreta, in linea con i principi evolutivi della sperimentazione della natura vivente (sperimentazione progressiva e costante, legata a fattori contingenti e pratici). Non vi è contrapposizione tra pragmatismo e sperimentazione. L’aspetto pragmatico è strumentale e propedeutico alla messa in campo di elementi ad alta complessità e problematicità, in grado di produrre una reale e concreta, non utopica, produzione di novità. Nel nome dello studio è già bene indicata la prospettiva straniera (Foreign) e straniante del loro operare. Una prospettiva dall’ottica di uno straniero/nomade (tema molto caro a Deleuze) che vive e percepisce i luoghi nelle loro qualità funzionali e sensibili “elementari”, evitandone i condizionamenti storico-culturali. Ben disposta a cogliere le opportunità immediate del contesto, la prospettiva nomade si muove da una posizione “altra” rispetto a quella dei valori e delle aspettative consolidate. È una prospettiva dalla quale potere creare le condizioni favorevoli al sorgere di una architettura proliferante e nuova, con valenze maggiormente condivisibili, oltre le definizioni culturali e storiche, oltre i valori locali.

Il Yokohama International Passenger Terminal è un’opera che dissolve i limiti tra architettura e urbanistica. Si pone come luogo di passaggio, intende intensificare formalmente e percettivamente il rituale del viaggio. Molti temi della piega deleuziana sono evidenti in questa opera. Siamo in presenza di una spazialità fluida nella quale interno ed esterno si confondono, scompaiono anche le distinzioni tra muri e pavimenti. Vengono fortemente ibridati edificio e suolo, non c’è una vera e propria facciata, non ci sono veri e propri esterni. Vi è una prevalenza delle superfici orizzontali a discapito di quelle verticali, appena percepibili e parti di un flusso formale dinamico. Non ci sono punti di vista privilegiati, non si è di fronte ad una architettura-oggetto, quanto ad una architettura-paesaggio dall’aspetto mutevole, che sembra seguire un perpetuo movimento. Tutti questi aspetti contribuiscono a creare un effetto fortemente aniconico. Non ci sono referenti esterni, ideali, fuori dal tempo”. Pratica e teoria sono qui fuse in unità. Non c’è una teoria esterna che guida l’operato, esso è preso in una pratica progressiva e risolutiva, legata indissolubilmente alle proprie esigenze (progettuali). È un’architettura che intende suggerire/sottolineare il processo di attualizzazione delle virtualità - in senso deleuziano - proprie al progetto. Il virtuale, seguendo Deleuze, è composto da cose che sono latenti, potenziali, non ancora attualizzate. FOA cerca quasi di fare parlare in modo autonomo il progetto, predisponendo le condizioni che lo facciano esprimere, secondo una sua linea di virtualità. La visione proposta qui (come in molte altre opere dei FOA) è quella dall’interno stesso dell’architettura. La conformazione materiale è espressione del processo interno di differenziazione. Alla radice della filosofia del “divenire” di Deleuze ci sono le teorie di Henry Bergson (in particolare quelle espresse nel suo libro L’evoluzione creatrice del 1907). Le idee di Bergson - pensatore dello slancio vitale - hanno influito profondamente sul pensiero di Deleuze, il quale ne ha proposto approfondite analisi, sviluppandone le implicazioni. La “vita” viene letta alla luce della sua esigenza di creazione, come tendenza/sforzo che agisce sulla materia grezza. Le variazioni ininterrotte della materia e l’influenza del fattore temporale su di essa inducono ad una idea del vivente come macchinario - in senso deleuziano - che estende la propria durata allontanandosi progressivamente da se stesso. Nel Terminal di Yokohama non viene ricercato l’effetto formale e plastico visibile dall’esterno. Ciò che viene sottolineata è la concreta materializzazione immanente dell’opera, secondo la sua complessità “generativa”. È un’architettura dal carattere quasi naturale. La piegatura dei camminamenti, il paesaggio fluido, le colline artificiali, sembrano ispirate alle onde del mare e alle dune di sabbia. Questa somiglianza con le forme della natura non è incidentale od unicamente formale, è conseguenza di un’approccio compositivo profondamente vicino alle dinamiche evolutive presenti in natura. Ciò che è “mimato” non è l’aspetto della natura, è il divenire stesso della natura. È una somiglianza conseguente a un processo di immedesimazione al crearsi della natura. L’opera rimane volontariamente legata alla propria temporalità, al proprio farsi, cresce sulla sua stessa base contingente e pratica. Sembra assumere su di sé la dimensione temporale, similmente alla natura del vivente. Le piegature e le curvature simil-biologiche non rappresentano forme viventi, tentano esse stesse  di essere “vitali”.

Diverso, ma ugualmente legato a molti aspetti della piega deleuziana, è il caso dell’architettura sviluppata dal gruppo Morphosis. Il tecnomorfismo sismico dei Morphosis fa riferimento alle forze che agiscono sul suolo, alle variazioni della terra, seguendo una linea estetica che ne privilegia il loro aspetto di macchinario simil-tecnologico. Il loro “divenire” si pone sulla linea di indistinzione uomo-macchina. Del 1993 è il libro Folding in Architecture (a cura di Greg Lynn), che raccoglie ricerche in campo architettonico legate alla piega. È significativo come proprio a partire dal 1993 molti progetti dei Morphosis sottolineino gli aspetti della piegatura del suolo, creando nuovi “suoli artificiali”. La piegatura, il suolo e l’aspetto tettonico/geologico sono elementi indagati dai Morphosis in molti loro progetti. Vi è un intenso interesse per il suolo da parte dei Morphosis già nei progetti di fine anni ’80. Inizialmente vi sono rimandi e riferimenti alla Land Art e forme d’arte affini (Earth Art, Earth Works ecc.), che intervengono direttamente sugli spazi naturali. Sono espressioni artistiche legate al ribelle clima culturale sviluppato nel ’68 (la Land Art è sorta tra il 1967 e il 1968) intente a definire un nuovo rapporto dell’arte con la vita e la realtà quotidiana, verso una differente idea di società. Thom Mayne afferma di essere stato profondamente influenzato dalla Land Art e da opere di artisti quali Robert Smithson, Michael Heizer e Richard Serra. Smithson sviluppa insistentemente il tema della spirale quale forma al tempo stesso naturale e geometrico/artificiale, Heizer realizza incisioni nel suolo e scavi enigmatici, Serra propone pareti curve metalliche innestate nello spazio urbano e nel paesaggio. Mayne attinge molte suggestioni progettuali dalle loro opere. Le architetture dei Morphosis propongono spesso geometrie ripetitive, totemiche, meccaniche, scavate, incise nel suolo. Vi è un interesse costante per le relazioni spaziali, per i sistemi articolati, per le connessioni allargate. Viene sviluppata l’idea di intendere l’edificio e il sito come un elemento unitario. Nei Morphosis si presenta uno strano connubio di suggestioni provenienti dalla Land Art e dalla tecnologia simil-fantascientifica. C’è un’affinità con l’immaginario letterario e artistico cyberpunk, appassionato alla soggettività cyborg, quale punto di contatto uomo-macchina, unione di elementi artificiali e biologici. L’uomo diviene qualcosa di nuovo, un essere ibrido, umano e non umano. Il corpo dell’uomo, non più immutabile e naturale, diventa un elemento tecnologico modificabile. Gli innesti artificiali potenziano le capacità del corpo, ne amplificano le possibilità. Le tecnologie diventano parte integrante del corpo umano, consentendo azioni altrimenti impossibili. Similmente le architetture dei Morphosis muovono da un carattere natural-antropomorfico esaltato dalle potenzialità tecnologiche, desideroso di superare i propri limiti. La tecnologia nei Morphosis non è un elemento che, come nel moderno, delinea unicamente le possibilità di sviluppo della società, essa stessa diviene quasi elemento di mutazione e potenziamento dell’umano. Molti collages di Thom Mayne rappresentano una tecnologia teatralizzata, un high-tech post-atomico, quasi post-umano. Nel suo libro Violated perfection: Architecture and the Fragmentation of the Modern del 1990 Aaron Betsky parla, anche a proposito dei Morphosis, di tecnomorfismo riferendosi a un atteggiamento architettonico nel quale gli elementi tecnici ed architettonici vengono pensati come parti di un corpo ibrido umano/meccanico, metà uomo e metà macchina. L’uomo diviene macchina ma anche la macchina - e l’architettura - diviene umanizzata, animata”. La tecnologia viene usata dai Morphosis per esprimere la nuova e complessa condizione umana. In loro è presente un atteggiamento ambivalente nei confronti della tecnologia, di amore-odio, insieme critica e fascinazione degli aspetti terrificanti del nostro tempo. L’architettura dei Morphosis si pone al confine tra desiderio e realtà, è un’operazione mutante a cavallo fra natura e artificio tecnologico. Propone una commistione di natura e tecnologia.

Il Giant Interactive Group Headquarters, a Shanghai, è una delle opere dei Morphosis che meglio esprime il loro interesse per la piegatura del suolo. L’opera crea forme frastagliate e instabili, da post-terremoto. Si è come in presenza di uno spostamento sismico dei volumi, di un evento tellurico. L’opera è espressione di un processo destabilizzante in divenire, che coinvolge al contempo la sua base antropico-tecnologica e la sua presenza e consistenza naturale-materica. Sia la tecnica antropica che la materia naturale sono indotte in un processo di ibridazione e perdita di punti di riferimento acquisiti, verso una ignota e nuova potenziata dimensione. Il progetto ha geometrie piegate, frastagliate, di ispirazione geologica. Il suolo piegato ha forme frammentate, fenditure, tagli violenti. Il sollevamento del suolo va a creare spazi sotterranei, simil-ipogei. Si configura una terra sollevata, un nuovo “terreno artificiale”. L’edificio diventa suolo e il suolo diventa edificio. Natura e architettura sono quasi intercambiabili. Il paesaggio e gli edifici vengono fusi in una nuova unità. L’architettura si fa paesaggio e il paesaggio si fa architettura. Entrambi sembrano qui, in una sorta di attesa reciproca, nascere nuovamente su altre basi, come desiderosi di superare i propri condizionamenti e i propri limiti. Architettura, natura ed assetto urbano non hanno più confini chiaramente definiti. Questo intento di indistinzione e di proliferazione generalizzata dei codici è una costante in molte opere dei Morphosis. Con il suo libro del 2011, Combinatory Urbanism: The Complex Behavior of Collective Form, Thom Mayne esplicita quelli che sono i suoi interessi e i suoi propositi progettuali in campo urbanistico, quale sia la sua peculiare maniera di leggere ed intervenire progettualmente nei processi urbani. Mayne propone una visione formale dinamica e polimorfica della città, letta come entità naturale/geografica. Importanti strategie urbane, a suo avviso, sono l’ibridazione delle scale di progetto e una volontà di fusione di architettura e urbanistica. È l’architettura a condurre l’urbanistica. L’architettura è considerata capace di indurre il processo urbano verso una dinamica di cambiamento. Piuttosto che attendere le “direttive” urbane dall’urbanistica, l’architettura dovrebbe indurre l’aspetto urbano verso un approccio mutevole e mutante, capace di cogliere le necessità della condizione contemporanea, capace di assecondarne il divenire. Nel progetto per Shanghai tutto è in “divenire”, tutto è “attivo”, proiettato - come l’uomo-macchina, come il cyborg - verso un superamento dei propri limiti. Il suolo è riconfigurato in senso tecnologico a creare colline artificiali fruibili. Lo spazio architettonico apparentemente non subisce forze esterne, le assume e le rigioca liberamente secondo una propria intenzione formativa. Colline verdi che si sollevano, volumi massivi che fluttuano nello spazio. Persino la forza di gravità non sembra più un elemento in grado di contrastare un desiderio di sviluppo architettonico dinamico, ormai totalizzante, orientato al futuro.

Un altro importante studio di architettura che attinge molti elementi dalle teorie di Deleuze - comprese quelle sulla piega - e li ripropone in chiave architettonica è UNStudio. Il “divenire” di UNStudio si pone sulla linea di indistinzione uomo-animale. Per UNStudio si può parlare di Metamorfismo dinamico in riferimento alla costante volontà di rendere mutanti le forme architettoniche, ponendo in crisi le visioni statiche in favore di visioni metamorfiche, che non risparmiano neppure il concetto stesso di umano. L’identità umana viene virtualmente resa partecipe di un flusso di modificazioni e di ibridazioni che la conducono oltre i propri confini acquisiti. Poste le basi teoriche di una oscillazione e variazione dell’identità antropica, l’architettura non ha più un importante referente ideale al quale riferirsi. L’architettura viene “liberata” da millenni di antropocentrismo. Il riferimento all’umano forse persiste, ma è l’idea stessa di umano che fluttua in una perturbante indistinzione con l’elemento “animale”. UNStudio propone anche una esemplificazione creativo/artistica del loro modo di operare: il Manimal, immagine nata dalla fusione (morphing) di aspetti umani ed aspetti animali. Manimal suggerisce una nuova mediazione e unità/sintesi della complessità. È un’immagine informatica che fonde le immagini di base da cui è generata, annullandone i confini, suggerendo una ibridazione che è anche nuova unità. Manimal si riferisce alla scomparsa del volto umano, aprendo la strada ad un processo di mutazione capace di trasformare liberamente la propria identità. È un processo legato al divenire altro da sé. Questa trasformazione e “mostruosità” è implicata in un - in senso Deleuziano - “divenire-animale”. Per Deleuze (e Guattari) il divenire-animale non tratta l’animale come termine di confronto rispetto all’umano, si riferisce piuttosto ad una involuzione, che avviene tra elementi eterogenei (più in generale è il divenire stesso, per Deleuze, ad essere involutivo, è un movimento immanente come involuzione creatrice). Lo strumento privilegiato di UNStudio nella sua creazione di architettura “mutante” è il diagramma. Nel suo testo su Foucault del 1986 Deleuze insiste sull’idea di diagramma come “macchina astratta”, come carta dei rapporti di forze. Inteso come una macchina astratta, il diagramma non è rappresentativo, non si rapporta ad una idea, è strumentale alla nascita di nuove realtà. UNStudio è interessato ad introdurre nel reale diagrammi in grado di indurre una creativa proliferazione generativa, in contrasto con le fissità tradizionali e conformanti. Non essendo rappresentativo il diagramma non si lega a forme preesistenti, non si basa su presupposti tipologici. Il diagramma libera il progetto dai vincoli formali e tipologici e lo apre a infinite possibilità. Il diagramma attiva il processo formale, è il punto di contatto fra l’astrazione ideativa e la concretizzazione materiale, in senso anti-idealista. Il diagramma in UNStudio si fa mezzo per sfuggire alle tipologie già esistenti, forse non più adatte a comprendere e rendere conto della complessità degli accadimenti del contemporaneo, della loro mutevolezza. L’intento di UNStudio è quello di creare/utilizzare modelli fluidi aperti all’inclusione e all’ibridazione. È questa fluidità programmatica che indirizza l’opera verso una forma anch’essa fluida, una fluidità che è l’antitesi del modello cartesiano e della griglia architettonica modernista. La volontà da parte di UNStudio di evitare sistemi chiusi e rigidi in favore di sistemi fluidi e dinamici passa spesso anche per un’utilizzo sapiente di modelli matematico-geometrici complessi. Particolarmente utilizzati da UNStudio sono quei modelli che superano i confini netti e si legano o avvicinano al concetto di spazio “infinito”, come il nastro di Möbius (nastro “senza fine”) o la bottiglia di Klein (superficie per la quale non c'è distinzione fra interno ed esterno).

L’Arnhem Central Masterplane è una concreta materializzazione architettonica dell’idea di flusso continuo spaziale. È un articolato e funzionalmente complesso edificio che interagisce con molteplici sistemi di trasporto. È un luogo che collega e fornisce accesso a treni, autobus, taxi, auto. È hall di passaggio, stazione degli autobus, parcheggio sotterraneo, torri per uffici. L’architettura della stazione è espressione di movimenti, relazioni e flussi dinamici. Pe rispondere al meglio alla complessità funzionale, il progetto - come molti altri progetti di UNStudio - nasce dal deep planning. Vengono studiati nuovi metodi di raccolta, elaborazione e traduzione delle informazioni, applicando i concetti e le tecnologie digitali all'interno della “sfida” urbana. L’elaborazione e l’analisi di grandi quantità di dati ha lo scopo di rendere il progetto più ricettivo e attento alle emergenti complessità della nuova condizione urbana. Ciò che interessa a UNStudio non è tanto la stazione in sé - come oggetto isolato - quanto il sistema di relazioni nel quale è coinvolta. La sua forma, conseguente ad una analisi meticolosa dei flussi dinamici, ne rende esplicita la funzione. Fulcro centrale del progetto è l’elemento tortuoso e caleidoscopico che distribuisce lo spazio, sostiene il tetto e lascia entrare la luce. Questo elemento crea un filtro mutevole e permeabile tra interno ed esterno. Il modello della bottiglia di Klein è stato utilizzato come riferimento organizzativo per il movimento, al fine di “unire” spazi interni ed esterni. Conformemente al suo modello, l’architettura confonde interno ed esterno, ne supera la distinzione, ne rende percettivamente indistinguibile il confine. Dall’interno si è proiettati verso l’esterno, dall’esterno si è come attratti dal suo vorticoso movimento. È qui che trova espressione il “potere” della piega, potere ambiguo, destabilizzante, creatore di molteplicità. Qui la piegatura confonde i confini, quello tra suolo e parete e quello tra interno ed esterno. Nato dalla ibridazione delle forme, questo elemento piegato è come un essere mostruoso, inquietante, sconosciuto. Formalmente una sorta di combinazione tra cupola e colonna, ne diviene la negazione, il superamento di entrambi. La sua piegatura non consente più di distinguere funzioni e luoghi separati. Siamo di fronte ad una fluttuazione degli spazi, ad una contorsione dei livelli e dei piani, ad una commistione mutante, ad una - caratteristica e prerogativa della piega - compresenza metamorfica del dentro e del fuori.

 

 

NOTE

[1] Gilles Deleuze (con Félix Guattari), Capitalismo e schizofrenia in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Torino, Einaudi, 2007, p. 295.

[2] Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, p. 155.

[3] Ibid., p. 156.

[4] Ibid., p. 201.

[5] Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 2004, p. 5.

[6] Ibid., p. 131.

[7] Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, Napoli, Cronopio, 2007, p. 27.

[8] Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 59.

[9] Ibid., p. 59.

 




«Il capitalismo pretende di impadronirsi delle cariche di desiderio prodotte dalla specie umana»

(Félix Guattari, Il capitale mondiale integrato)
    Filippo
    Moretti 
    2018