ARCHITETTURA COME OROGENESI.
  ESPRESSIVE CREAZIONI IN DIVENIRE


Nel 1912 Alfred Wegener formula la teoria della deriva dei continenti, dalla quale si sviluppa negli anni il modello della tettonica delle placche. Sono anni in cui la comunità scientifica - la geologia in particolare - continua ad interrogarsi sui processi che portano alla formazione delle montagne, sui processi di orogenesi (óros, rilievo, e ghènesis, origine). Le conformazioni montuose vengono intese, in maniera sempre più marcata, come parte di un movimento geologico più complessivo. Vengono interpretate come il risultato materiale di processi e di forze energetiche nel tempo. Anche l’interpretazione artistica della montagna ne risulta, a suo modo, coinvolta. Sembra esservi una sorta di analogia fra le indagini scientifiche sulle “profonde” forze della natura e un atteggiamento artistico, quello espressionista, che esprime le “profonde” forze naturali dell’essere umano. La creazione esteriore, naturale, e la creazione interiore, artistica, vengono entrambe “scosse” da processi di instabilità. Gli espressionisti vedono nelle montagne, e nelle loro rocce, una concreta manifestazione delle poderose ed incontenibili forze naturali alle quali anelano.

L’atteggiamento espressionista nei confronti della montagna è esemplificato dall’artista Ernst Ludwig Kirchner. Nel 1905 Kirchner partecipa alla fondazione, a Dresda, dell’associazione artistica "Brücke", dalla quale prende l’avvio l’espressionismo tedesco. Il nucleo iniziale del gruppo è costituito, significativamente, da quattro studenti di architettura (oltre a Kirchner: Fritz Bleyl, Erich Heckel, e Karl Schmidt-Rottluff). Nel 1917 Kirchner, traumatizzato dalla prima guerra mondiale, e in gravi condizioni di salute, si ritira a vivere nella solitudine delle montagne, a Davos, in Svizzera. La montagna è per lui luogo di guarigione. Dopo le intense esperienze artistiche a Dresda e Berlino, Kirchner trova nelle Alpi svizzere un luogo di introspezione, di rinascita artistica e personale. Nelle sue opere di questo periodo vi è una esaltazione emozionale delle montagne. Il loro aspetto - deformato, esasperato, estremizzato - si diffonde potentemente nello spazio e ne coinvolge la composizione. Le opere di Kirchner non esprimono ciò che appare della natura, ma piuttosto il suo “segreto”, la sua forza creativa. Il dipinto Stafelalp al chiaro di luna del 1919 manifesta pienamente questo nuovo atteggiamento artistico nei confronti della montagna. Le architetture alpestri presentano lo stesso trattamento dinamico delle montagne; tutto è fuso in un unico vortice creativo. Più in generale, ciò che muove l’impetuosa creatività espressionista è la ricerca di una realtà caotica, dalle possibilità illimitate. Si manifesta nell’espressionismo una volontà di trasformare il mondo con i mezzi dell’arte. Vi è un impulso ad esprimere ciò che si produce all’interno dell’individuo, seguendo ed esaltando forze ed energie “naturali” che lo attraversano. Come afferma Ladislao Mittner: «Sembra dominare un principio architettonico rivoluzionario in tutte le arti, un nuovo senso di spazialità tesa e convulsa, sopraffatta dal panico, da una sinistra volontà del terremoto»[1]. È un tentativo di ritorno ad una condizione naturale, “originaria”; ad una innocenza precedente la civilizzazione. È una propensione creativa tendenzialmente anti-storica, che sembra fuggire alle catene del tempo. Per Bruno Zevi: «Scaturendo da stati d'animo sconvolti e ribelli, l’espressionismo non ha confini cronologici; se ne decreta il consumo e la morte, poi inaspettatamente risorge. […] L’espressionismo […] temporalizza la fruizione delle immagini senza negare la tridimensionalità prospettica, anzi esaltandone la corposità gremita di anfratti in detonanti scorci angolari, spesso in eruzioni telluriche che bruciano ogni memoria rinascimentale. In questo senso, il suo anelito alla gestualità materica è sovrastorico»[2].

La capacità di ri-presentarsi dell’espressionismo è sostenuta dalla sua insistente aderenza ai principi del “vitale”. L’atteggiamento espressionista si nutre di “vitalismo”: attinge profondamente al pensiero di Friedrich Nietzsche e a quello di Henri Bergson. In entrambi è centrale il concetto di “vita”, concepita come un continuo divenire. Il processo vitale è inteso come potere creatore di forme dall’interno, come “volontà formatrice”. Il pensiero di Nietzsche sostiene un prendere parte alla danza terrena, alla parvenza cangiante del vivente, alla dionisiaca esaltazione della vita. Riacquistano diritti l’istinto e l’irrazionale. Il mondo è, per Nietzsche, “vivente”: un campo di forze che ininterrottamente - ed eternamente - si trasformano. Sia in Nietzsche che in Bergson acquista valore il transitorio e il mutevole. Per Bergson la “vita” è continua ed incessante creazione. Egli pone come fondamento dell’intero universo una energia - una creatività intrinseca nella natura - che chiama élan vital (slancio vitale). Per Bergson la materia, solo apparentemente inerte, è una interruzione, momentanea, dello slancio vitale. In Bergson vi è una rivalutazione dell’istinto creatore, in quanto capace, per sua natura, di entrare in contatto con il profondo della materia “vivente”. L’istinto, per Bergson, continua il lavoro con cui la vita organizza la materia. Esso è parte integrante del divenire materiale: “conosce” la materia (l’intelligenza “conosce” la forma). Per Bergson la conoscenza “relativa” ragiona per composizione e per simboli, la conoscenza “assoluta” è immediata e si colloca all’interno della cosa (oltre il linguaggio). Così, il riconoscimento di cose e oggetti è solo una - artificiale - “fissazione” della nostra mente sul divenire; è disconoscimento della natura (e del “naturale”). Come sottolinea Gilles Deleuze: «Bergson scopre che al di sotto dello spostamento locale c’è sempre un trasporto di altra natura»[3]. Non vi è più una reale distinzione tra chi crea, ciò che viene creato, e il divenire materiale del mondo. Seguendo Deleuze: «Che cos’è infatti questa emozione creatrice se non proprio una Memoria cosmica, che attualizza contemporaneamente tutti i livelli e che libera l’uomo dal piano o livello che gli appartiene per farne un creatore adeguato a tutto il movimento della creazione?»[4]. In quanto poderose espressioni materiali del divenire del mondo geologico, le montagne, e le rocce, manifestano pienamente questo movimento di creazione. Sono elementi di riferimento per tutte quelle poetiche architettoniche che intendono sottolineare l’aspetto energetico e potente del divenire.

L’architetto che per molti aspetti inaugura questo nuovo sentire è il tedesco Bruno Taut, figura centrale del movimento espressionista tra le due guerre (nato in Germania nel 1880, come Alfred Wegener). Taut sviluppa una visione utopica senza precedenti: la Alpine Architektur (Architettura alpina). Pubblicata nel 1919, ma elaborata dal 1917 al 1918, nel corso della prima guerra mondiale, la Alpine Architektur è composta da una serie di tavole corredate da annotazioni. È il risultato di una personale e forte reazione all’orrore provocato dalla guerra. È una “mistica dell’edificare” - in un territorio di anarco-socialismo utopico vicino alle posizioni di Gustav Landauer - che immagina una partecipazione ad un nuovo ideale cantiere collettivo come progetto di riconciliazione dei popoli d’Europa. L’immaginazione si rifugia sulle montagne. La pressoché incontaminata natura alpina viene vista come la fonte dalla quale attingere per un rinnovamento dell’umanità. Nella visione di Taut, terre, pietre, montagne, sono come “in movimento”. Scrive Taut, nella terza parte (denominata: L’edificazione delle Alpi): “LE ROCCE SONO VIVE”, “GRANDE È LA NATURA”, “Tutto è CREAZIONE eternamente rinnovata”. Nella Alpine Architektur di Taut natura ed architettura sembrano partecipare ad uno stesso processo di formazione, ad una medesima tensione universale. Negli esempi più innovativi le Alpi vengono ri-configurate secondo un carattere minerale. È spesso un procedere dall’interno della materia, verso l’esterno. Nell’ipotesi di Taut per il Matterhorn (Monte Cervino) vi è un creare in sintonia con il divenire della natura. L’architettura si fa qui estensione della montagna, simile alle sue conformazioni. Come afferma Matthias Schirren: «La Alpine Architektur […] non era affatto un appello megalomane a costruire edifici più grandi delle Alpi, come fino ad oggi si tende volentieri a leggerla, conservando così l’equivoco. A Taut interessava soprattutto l’equivalente artistico di una visione del mondo nella quale si fondessero soggetto e oggetto, nella quale non ci fosse più alcuna distinzione tra ciò che è cresciuto naturalmente e ciò che è stato creato artificialmente»[5].

Nel 1919, lo stesso anno in cui pubblica Alpine Architektur, Taut fonda il gruppo "Gläserne Kette" ("Catena di cristallo" o "Catena di vetro"), gruppo artistico-architettonico di cui fanno parte, fra gli altri, anche Hermann Finsterlin, Wenzel Hablik e Hans Scharoun. Il gruppo sarà attivo per circa un anno, con scambio di disegni visionari e testi per ipotesi di architetture futuribili. Nelle ipotesi compare spesso una, più o meno radicale, ricerca di indistinzione tra l’opera architettonica e l’opera della natura. Hermann Finsterlin è certamente colui che esprime nel modo più impetuoso l’anelito al divenire mutevole della materia naturale. Finsterlin nelle sue creazioni trae profonda ispirazione dalle Alpi della Baviera. Le montagne sono per lui fonte da cui attingere nuove ed imprevedibili, quasi istintive, conformazioni proto-architettoniche. Le sue complicate e frammentate opere esprimono l’incessante evoluzione che anima tutte le cose. Sono creazioni che sembrano partecipare ad un movimento che nasce dalla profondità della materia. Anche Wenzel Hablik sviluppa nel corso degli anni immagini di mondi mossi da potenti forze naturali. Nelle ipotesi di Hablik la montagna gioca un ruolo importante. Sono spesso fantasie di cristalli, di forze geologiche, di formazioni naturali immaginarie. Nelle sue visioni l’opera umana si lega alle forze della natura, tutto partecipa alla potenza della montagna.

È però dal secondo dopoguerra, dopo la fase utopica inaugurata con l’espressionismo nei primi anni del Novecento, che la poetica sino a qui delineata si concretizza in reali opere di architettura. Hans Scharoun rimane costantemente fedele alla poetica espressionista. Riesce a tradurre - con le dovute differenze - le utopie del passato in un presente di ricostruzione. La sua è sempre una architettura come processo in divenire, che sviluppa il progetto dall’interno verso l’esterno. È una architettura quasi indifferente alla forma esteriore. Vi è in Scharoun una tendenza a comporre per piani frastagliati, che a volte possono richiamare le conformazioni di una montagna. Già nel 1910 Scharoun immagina, in un suo disegno, una “chiesa come roccia”. Questa suggestione sembra accompagnarlo negli anni. Particolarmente significative, in questo senso, sono due opere degli anni Cinquanta. Nel progetto per il Teatro di Kassel la copertura è un susseguirsi di forme che ricordano il profilo di un monte. Le geometrie mutevoli e l’articolarsi in altezza dei volumi avvicinano il progetto a conformazioni naturali, geologiche. Questo aspetto si fa ancora più radicale nella Filarmonica di Berlino. Qui anche l’interno rimanda ad un immaginario naturalistico. Con il suo andamento frastagliato, con i suoi innumerevoli piani inclinati, somiglia ad un libero susseguirsi di colline naturali. Negli anni Sessanta un altro architetto tedesco, Gottfried Böhm, progetta una serie di edifici fortemente influenzati dalle mutevoli forme delle montagne e delle rocce. Nella Cappella del Villaggio del Fanciullo a Bergish Gladbach la copertura presenta un aspetto simile ad una gigantesca conformazione rocciosa. Continue variazioni planimetriche e mutevoli sfaccettature in copertura ne fanno un’opera molto articolata e massiva. Nel Santuario di Maria a Neviges le forme sono ancora più estreme. Già nei disegni di studio si nota l’importanza che riveste per il progetto la copertura, che richiama le asperità delle rocce e dei minerali. La somiglianza con la roccia, con la montagna, è accentuata anche dalla scarsità di aperture. È un’architettura estremamente compatta e sfaccettata, che pare creata dalla natura. Suggestionata da un immaginario naturale “roccioso” è anche l’opera di Engelbert Kremser. A fine anni Sessanta Kremser crea dei fotomontaggi particolarmente destabilizzanti. In essi viene espresso un forte contrasto tra l’elemento storico-antropico ed ipotetiche formazioni addizionali, a carattere neo-naturale. Sono nuove articolazioni informi simil-montuose, caotiche, che invadono violentemente i centri urbani. L’apparizione di queste architetture immaginarie pare al contempo perturbane e liberatoria. L’intorno - tradizionale, urbanizzato - sembra qui non poter più contenere l’impellenza di una istanza naturale, da troppo tempo assopita e repressa. Nell’ambito di una ricerca di contatto formale tra l’architettura e la natura rilevante è anche l’opera dell’architetto finlandese Reima Pietilä. Nelle sue creazioni Pietilä si lascia fortemente ispirare dalla selvaggia natura del suo paese. Riguardo un avvicinamento all’immaginario delle rocce, e delle montagne, importanti sono due opere degli anni Sessanta. Il Centro Dipoli di Otaniemi, a Espoo, è un superbo esempio di architettura a carattere “informale”. La libertà creativa è quasi istintiva, incontenibile. Con grande maestria viene accolto l’elemento naturale: grandi massi rocciosi sono presenti nell’edificio, anche al suo interno. Il risultato è un’architettura sufficientemente caotica da essere quasi confusa con un’opera della natura. Altro progetto di Pietilä molto vicino a queste tematiche è quello per la Chiesa luterana di Malmi, a Helsinki. L’architettura si fa estensione della natura circostante. Pare una roccia artificiale che, come sospinta da forze geologiche, emerge dalle viscere della terra. Suggestionata da formazioni montuose e rocciose è anche l’opera dell’architetto austriaco Günther Domenig. Le sue architetture presentano un carattere di neo-espressionismo estremamente vigoroso, che spesso trae ispirazione dalle Alpi austriache. La Steinhaus (casa di pietra) a Steindorf am Ossiacher See, in Carinzia, degli anni Ottanta, si ispira alle montagne circostanti. Ne esalta la “potenza”. Sembra composta da masse rocciose che affiorano dal terreno. Cemento e acciaio richiamano la durezza delle pietre naturali. L’edificio somiglia ad una roccia sottoposta a invisibili forze del sottosuolo. È come frammentato dall’interno, fratturato nel suo stesso nucleo generativo. Un’altra architettura di Domenig che, nel nuovo millennio, riprende fortemente questo aspetto massivo e dinamico è il T-Center a Vienna. I giganteschi volumi sembrano scossi e sospinti violentemente verso l’alto da potenti forze naturali. Tutto il movimento orchestrato dall’edificio è quasi come una terremotata apparizione nell’intorno urbano. Il tema di una architettura a carattere montuoso/roccioso viene indagato anche dagli architetti José Antonio Martínez Lapeña ed Elías Torres. Nel loro progetto La Granja Escalators a Toledo, di inizio Duemila, vengono a crearsi piani inclinati di aspetto simil-naturale. Il percorso ascensionale è quasi sepolto in una profonda incisione del terreno. I livelli si intersecano secondo un libero movimento simil-tettonico. La collina subisce un taglio violento che pare la diretta conseguenza di una scossa tellurica. Nel progetto Baluard del Príncep a Palma di Maiorca la preesistenza storica viene inglobata in un frastagliato sistema di risalita. Vengono creati innalzamenti che paiono prodotti da forze del sottosuolo. Il rimodellamento delle mura storiche è occasione per fare “emergere” dal suolo un sistema articolato di piani inclinati che può ricordare una forma naturale, rocciosa, tanto è la sua libera articolazione formale. Nel nuovo millennio un architetto che insistentemente indaga questo potenziale dell’immaginario roccioso è Fernando Menis, originario delle isole Canarie. Il potente paesaggio vulcanico di quel territorio influenza profondamente la sua architettura. Il progetto per l’Auditorium di Pájara, nelle isole Canarie, non pare immaginato “sulla” montagna: si fa esso stesso montagna. Porta su di sé tutta la gravità della materia. Sembra il risultato di un violento movimento tellurico. Ha volumi scavati, inclinati, scossi, “terremotati”. Della montagna viene così esaltato il carattere dinamico, coinvolto in incontenibili processi naturali. Nel progetto per il Culture and Congress Centre Jordanki a Torún, in Polonia, erompe un impeto materico estremamente possente. È un’architettura che si approssima al fare della natura, con volumi massicci che sembrano il risultato di movimenti tettonici. Tutto l’insieme rimanda palesemente a conformazioni geologiche. L’opera è simile ad un gigantesco ammasso roccioso incastonato nel terreno. È concreta manifestazione di forze, di energie, di un immanente divenire.


NOTE

[1] Ladislao Mittner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, p. 75.

[2] Bruno Zevi, Storia dell’architettura moderna. Volume primo, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, p. 23.

[3] Gilles Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Torino, Einaudi, 2001, p. 38.

[4] Ibid., p. 102.

[5] Matthias Schirren, Natura, cosmo, “Weltbild”, proporzione. Bruno Taut teorico in AA.VV., Bruno Taut. 1880-1938, Milano, Electa, 2001, p. 92.




«Poderoso è il silenzio nella pietra»

(Georg Trakl, Cantico della notte)
    Filippo
    Moretti 
    2022